Collana Il pensiero degli associati

Le vostre riflessioni

Una collana del Parliamo di…, una sezione riservata agli associati dove poter condividere il proprio pensiero su tematiche critiche o di particolare interesse. Uno spazio pensato per far sentire la propria voce; come un luogo di confronto e contributo al dibattito giuridico.

Antropologia criminale e devianze del minore: il sistema giudiziario vigente in Italia

A cura di Avv. Antonio Vito Boccia

All’interno del consesso giuridico, e non solo, si sente parlare sempre più spesso di criminologia, ovvero di scienze criminologiche: infatti se ne dibatte sotto diverse sfaccettature, sia all’interno del mondo scientifico che, in maniera divulgativa, persino nei moderni talk show televisivi. Di contro, molto poco si discute di antropologia criminale; anzi, quest’ultima disciplina pare essere stata relegata, dai più, come argomento dottrinale del passato. Ancor meno si dibatte in ordine all’antropologia applicata ai minorenni. Eppure, un secolo or sono, questa branca della scienza si era guadagnata un posto importante nel panorama scientifico e psicologico: oggi, invece, sembra quasi che non sia più una disciplina attuale, che rappresenti un mero relitto teorico del passato e, dunque, che sia oramai da considerare solo come una branca dell’antropologia giuridica. Non è così: pur dovendo riconoscere che i dettami lombrosiani sull’uomo delinquente  non possono trovare alcuna effettiva applicazione - in quanto erano diretta espressione del positivismo ottocentesco - si deve asserire che la moderna antropologia criminale italiana non è certo da considerare come un minus all’interno delle scienze antropologiche, anche perché essa mira, in concreto, all’ interpretazione delle varie condotte e dei comportamenti antisociali e delinquenziali dei soggetti studiati, considerandoli non già quale conseguenza di fattori di natura fisica e tipologica, bensì come conseguenza indiretta di condizioni biologiche ed ambientali: tutto ciò, peraltro, non è disgiunto da considerazioni metodologiche e da studi di carattere neuro-scientifico.

In base a quanto sopra enunciato, è facile distinguere gli aspetti rilevanti della disciplina moderna della ‘’nuova’’ antropologia criminale, mediante i quali è agevole differenziarla nettamente dalla criminologia, giacché risulta evidente che, all’interno delle scienze antropologiche criminali, oggi gli accenti peculiari sono posti sul problema della prevenzione della delinquenza e del trattamento del reo/criminale, ovviamente sempre mediante l’analisi delle varie personalità dei soggetti agenti, siano essi maggiorenni o minorenni (e, dunque, con le dovute conseguenti differenziazioni, imposte dal nostro ordinamento.  In conseguenza di ciò, è possibile rilevare che gli studi di antropologia criminale, allo stato attuale, a differenza di quelli del diciannovesimo secolo, si concentrano prevalentemente - nel rispetto della dignità delle persone - su due argomenti ben specifici: la difesa sociale e la rieducazione.

La cosiddetta prevenzione, o difesa sociale, comprende tutte le misure che hanno come obiettivo l’eliminazione o quanto meno la riduzione dei fattori criminogeni e, prevalentemente, riguarda le persone maggiori di età. Essa, del resto, si fonda su una teoria eziologica della criminalità e, per l’effetto, si propone di intervenire sulle cause sociali, attraverso programmi di intervento a carattere generale, in grado di intervenire o modificare le motivazioni che spingono alla criminalità. Tutto questo, ovviamente, ha una sua validità in generale: di fatti, il discorso è parzialmente diverso per quanto riguarda i minorenni, come vedremo infra (almeno in linea di massima).

In ogni caso, si deve segnalare che secondo alcuni autori la prevenzione non sarebbe ispo facto da considerare come un’azione specifica, o una delle tante modalità di prevenzione sociale, bensì dovrebbe essere considerata come una politica globale orientata al benessere sociale, che attraversa tutti i settori delle politiche amministrative. Altri autori hanno accentuato l’aspetto di sviluppo sociale che si ritiene sia il fondamento di queste politiche, il cui compito sarebbe in ultima analisi quello di studiare l’origine e la riproduzione delle ineguaglianze, responsabili dei contesti “svantaggiati”; per superarle, quindi, essi intendono la prevenzione sociale come la combinazione di un’azione individuale (verso il potenziale autore) e di misure basate sulla trasformazione delle condizioni sociali della comunità. Altri ancora intendono la prevenzione sociale come l’insieme delle misure di carattere collettivo, ovvero come il complesso delle misure estranee al sistema della giustizia penale.  In buona sostanza, non può esserci dubbio che si tratti di una forma di prevenzione che rimane orientata prevalentemente verso l’autore di reato, tutto questo ovviamente non in una prospettiva individuale, ma in un’ottica generale. Diventa, in realtà, difficile distinguere concettualmente questi approcci dalle tradizionali politiche assistenziali e sociali adottate nei paesi occidentali. Comunque, le aree di intervento della prevenzione sociale sono da ritenersi le seguenti: le politiche urbanistiche, quelle sanitarie, quelle per la famiglia, quelle educative, le politiche per il lavoro e le politiche di integrazione sociale in generale. Rientrano, quindi, nella nozione di prevenzione sociale una vasta gamma di misure che, nell’esperienza europea e non solo italiana, sono dirette soprattutto verso i giovani (o comunque verso gruppi di persone ritenuti marginali o vulnerabili).

Esiste poi il concetto di prevenzione comunitaria, anche se è alquanto controverso: secondo un orientamento diffuso, infatti, esso non rappresenterebbe una tipologia autonoma di prevenzione, ma racchiuderebbe interventi che appartengono più propriamente alla prevenzione sociale. Secondo altri, al contrario, essa si differenzia da queste strategie preventive e consisterebbe in un insieme di azioni orientate all’intervento sulle condizioni sociali che stanno alla base della criminalità in una comunità residenziale. Il suo carattere distintivo risiederebbe cioè nel fatto che essa, indipendentemente dalle tecniche adottate, viene attuata da agenti estranee al sistema penale, e, più precisamente, dalla comunità stessa mediante i suoi gruppi e le sue organizzazioni. All’interno della prevenzione comunitaria, quindi, si distinguono tre diversi approcci, i quali possono essere così riassunti e brevemente esposti:

-Organizzazione della comunità, basata sulla mobilitazione dei residenti a fini di prevenzione e di ricostruzione del controllo sociale informale, soprattutto nei confronti della devianza giovanile.

-Difesa della comunità, attraverso varie forme di autotutela dei cittadini o strategie difensive di carattere urbanistico e architettonico;

-Sviluppo della comunità, che comprende misure diverse tra di loro ma comunque indirizzate alla ricostituzione della dimensione comunitaria e al miglioramento complessivo delle condizioni sociali, abitative e dei servizi.

Infine, non si deve dimenticare che il concetto di prevenzione comunitaria comprende anche l’insieme delle attività di controllo della polizia, con quella che viene definita come community policing.

Tanto premesso, quanto all’argomento relativo alla cosiddetta rieducazione dei soggetti deviati, che - come detto - pure appartiene metodologicamente alla disciplina antropologica, deve riconoscersi che appare alquanto difficile distinguere in concreto, entro tale sfera argomentativa, gli aspetti prettamente giuridici da quelli psicologici e sociologici.  Ciò detto, esaminando il solo profilo giuridico, possiamo dire, in primis, che numerosi sono stati in materia gli interventi normativi degli ultimi anni, orientati nel senso della differenziazione della (e dalla) pena detentiva. Tale discorso, come vedremo fa breve, assume ancora più rilevanza per il settore minorile. Le novelle che si sono succedute si inseriscono, di fatti, in un complessivo processo di evoluzione del nostro sistema penale, il quale effettivamente appare essere cambiato notevolmente, rispetto a qualche anno fa: esso, peraltro, è destinato a mutare ulteriormente per effetto del rinnovamento legislativo in corso che, a sua volta, deve tendere sempre più ad adattarsi ai tempi che viviamo.

Nello specifico, la legge 23 giugno 2017, n. 103 (che ha modificato il codice penale, il codice di procedura penale e l’ordinamento penitenziario) è entrata in vigore il 3 agosto 2017 e ha introdotto una serie di istituti nuovi; inoltre contiene deleghe al governo per ulteriori riforme in ambito penale, che hanno trovato attuazione con i D.lgs. n. 121, n.123 e n.124 del 2 ottobre 2018. Ma, a ben vedere, la riforma dell’ordinamento penitenziario, in attuazione della delega contenuta nella Legge n. 103 del 2017, ha riguardato in particolare il complesso dell’ordinamento penitenziario, oltre che l’esecuzione penale minorile, che ci interessa maggiormente in questa sede. È evidente che si tratta di una serie di riforme che hanno progressivamente cambiato il volto del nostro sistema penale e che sono state precedute dall’introduzione di vari istituti, come quello della cosiddetta ‘’non punibilità’’ per la particolare tenuità del fatto-reato (mediante il D.lgs. 16 marzo 2015, n. 28). Si noti che, all’interno di tale sistema, l’ordinamento minorile è da considerarsi come una categoria speciale: infatti, per quanto riguarda più propriamente la risposta dello Stato alle azioni criminali provenienti da persone che non hanno ancora compiuto il diciottesimo anno di età, essa è completamente diversa dalle forme riservate al resto della popolazione. Sul punto si deve innanzitutto premettere che l’ordinamento italiano, com’è noto, richiede per l’imputabilità del minore la duplice condizione della cosiddetta soglia, ossia del compimento del quattordicesimo anno di età, nonché l’accertamento della capacità di intendere e di volere. In particolare, quindi, il nostro codice penale ha individuato due distinte fasce di età ben differenti tra loro, oltre ad aver dato una notevole rilevanza al concetto di imputabilità minorile, nel senso che prende in considerazione il reato solo se il fatto criminoso è stato compiuto dopo il compimento del quattordicesimo anno di età. Invero, la cd. devianza degli ultra-quattordicenni autori di reati, per essere conclamata, richiede comunque la verifica del grado di maturità raggiunto degli stessi: esso deve essere tale che consenta agli stessi di rendersi effettivamente conto e comprendere il disvalore sociale delle azioni (criminali) perpetrate. Ovviamente, sul tema, gli studi criminologici tengono conto anche di fattori psicopatologici, familiari e sociali, in un’ottica antropologica. Tanto considerato, fermo restante i concetti-base di difesa sociale e di rieducazione, sono teoricamente da prendere in considerazione cinque differenti modelli di giustizia minorile, premettendo che i primi due sono esclusi dalla nostra legislazione:

Il primo modello, definito come educativo, considera il giovane “deviante” come un soggetto patologico da curare e, soprattutto, da rieducare: tale modello, tuttavia, è stato apertamente criticato da chi invitava a considerare i soggetti in età adolescenziale in una dimensione psico-sociale, nella quale sono prevalenti le contestualizzazioni offerte dalla famiglia e dall’ambiente sociale.

Il secondo modello, che è quello chiamato deterrente, ha evidenti richiami alla giustizia retributiva che caratterizza l’ordinamento penale per gli adulti. Una concezione del sistema penale minorile similare veniva concepita come risposta alle vicende migratorie, in particolare, che riguardavano il nostro paese soprattutto durante gli anni Ottanta del secolo scorso.

Il terzo modello viene definito interazionista, in quanto mira a trattare la criminalità giovanile anche tramite strumenti differenti rispetto a quella degli adulti, evitando la stigmatizzazione del minore e conferendo alla pena una dimensione nuova rispetto a quella meramente retributiva.

Il quarto modello è quello della mediazione penale, definito anche modello restitutivo in quanto si propone di “ricucire” le fratture creata dal reato nel tessuto sociale attraverso un percorso di confronto tra vittima e reo che, soprattutto nell’ambito della giustizia minorile si trasforma così in un’occasione per la vittima di contribuire al processo rieducativo del minore.

Infine l’ultimo modello, c.d. sistemico, prende le mosse dal sistema welfare inglese, in cui le contee regionali si prendono cura in prima battuta delle criticità e delle devianze dei minori, che avvengono in un determinato contesto sociale.

A conclusione del nostro excursus, essendo evidente quale importanza rivesta dunque l’antropologia criminale (unita alla criminologia) nel settore giuridico e giudiziario minorile, sottolineiamo che il nostro sistema penale considera come mere devianze i fenomeni criminogeni commessi dai minorenni. Infatti sono ritenuti comportamenti devianti tutte le condotte che infrangono le norme e i principi della comunità. In considerazione del fatto che la anormalità del comportamento del minore è la rivelazione di un disagio giovanile che trae origine da svariati fattori, ovviamente, solo per una minima parte di tali comportamenti, ossia per la commissione dei reati più gravi, le condotte rilevate saranno considerate comportamenti delinquenziali, degne cioè di una risposta dello Stato a tutela del minore, ma anche quale vera e propria difesa sociale. Di fatti il R.D. n.1404 del 1934 prevede la possibilità di adottare misure amministrative, e non penali, di prevenzione, nel caso in cui il minorenne abbia manifestato una irregolarità della condotta e del carattere, che oggi viene intesa come un insieme eterogeneo di anomalie comportamentali. Ne conseguono una serie di percorsi, tutti ovviamente finalizzati alla riabilitazione del ragazzo “deviato”.

Segnaliamo infine che, al netto dell’istituto del cd. perdono giudiziale, ai fini di difesa sociale nel sistema giudiziario minorile è prevista anche la possibilità di accoglienza in centri di detenzione minorile, ma solo quale extrema ratio: si tratta di un luogo di reclusione dove i minorenni - che siano stati considerati come una grave minaccia per la sicurezza pubblica - una volta condannati, dovranno essere custoditi adeguatamente, soprattutto al fine di ricevere un’istruzione e delle cure coerenti.

Potenza, 10 novembre 2022

 

  

 

 Per eventuali approfondimenti dottrinari sulla materia è utile la consultazione dei seguenti saggi:

 

CORRERA M. - MARTUCCI P., Elementi di criminologia, Cedam, Padova 2013.

EULA D., Proposte e nuovi studi in antropologia criminale: cenno critico ai lavori del V congresso internazionale di antropologia criminale in Amsterdam, Ediz. FbeC Limited, Milano 2018.

GATTO A., Diritto minorile, Pacini Editore, Pisa 2020.

LICCI G., Lineamenti di una introduzione all’antropologia giuridica e criminologica, Giappichelli, Torino 2015.

LUSA V. - BORRINI M., L’atto criminale, editore Scarabeo, Milano 2013.

MARTUCCI P. - CORSA R., Fanciulli e devianza penale tra allarmismo e realtà. Fattori psicosociali e ruolo delle appartenenze etniche nei reati dei minori, in "Minori e Giustizia", 2005, 4, p. 161.

MARINUCCI G.-DOLCINI E. – GATTA G., Manuale di Diritto Penale, Giuffrè, Milano 2021.

RUSSO F., Dall’antropologia criminale alla psicologia criminale e investigativa, UPT editore, Torino 2019.

ZAPPALÀ (a cura di), La giurisdizione specializzata nella giustizia penale minorile, Giappichelli Torino 2019.

Sphere dialog