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LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA®
SUICIDIO

I

Il suicidio tra illiceità e libertà

a) Il suicido come atto deviante

Per suicidio si intende la morte che un soggetto si cagiona volontariamente e, quindi, con la consapevolezza degli atti compiuti allo scopo di procurarsela.

Le statistiche dicono che circa tra lo 0,5% e l'1,4% delle personemuoiaper suicidio che viene indicata come la 10° causa di morte in assoluto, con circa un milione di persone che muoiono nel mondo ogni anno. Il tasso di mortalitàper suicidi è dell'11,6 per 100.000 persone per anno. Il suicidio è la seconda causa di morte tra gli adolescenti. Nei giovani viene solo dopo la morte accidentale, rappresentando circa il 30% delle cause dimortalità. Per ogni suicidio portato a termine, si calcola che vi siano tra i dieci e i quaranta tentativi.

Il tasso dei suicidi viene considerato nella sociologia tradizionale un indicatore di situazioni multiproblematiche; la dimensione deviante della condotta suicidaria è un postulato dell’approccio statistico indicando una condotta generata per lo più da alterazioni sociali o psicologiche. L'abuso di sostanze è statisticamente il secondo settore di rischio più comune per il suicidio dopo la depressione e i disturbi psichiatrici. Ugualmente il gioco d'azzardoè associato all’aumento dei suicidi e dei tentativi. Tra i coniugi dei giocatori d'azzardo, per esempio, si calcola che il tasso di suicidi sia tre volte superiore a quella della popolazione generale. Anche la crisi economica ha una incidenza, anche se non altissima sui numeri di suicidio.

In questa prospettiva i giuristi si interrogano in primo luogo sulla illiceità o meno del suicidio in sé. Operazione che potrebbe apparire anche impietosa considerata la drammaticità e la definitività del gesto. Tuttavia il giurista non può sottrarsi a questo compito. A tale proposito si potrebbe ragionevolmente sostenere che il suicidio costituisca senz’altro un fatto illecito, come è desumibile dall’art. 5 c.c. che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo quando cagionano una diminuzione permanente dell’integrità fisica. Cosa c’è di più permanente che la morte? E che senso avrebbe vietare gli atti di mutilazione e non il suicidio? Si potrebbe sostenere che la morte è altro rispetto alla diminuzione permanente dell’integrità fisica (come sostiene la giurisprudenza sul danno biologico) ma è forse superficiale applicare a questo problema la conclusione giurisprudenziale che nega il risarcimento agli eredi in caso di morte immediata della vittima, dal momento che questa conclusione non si fonda su un giudizio di non illiceità dell’evento mortale ma soltanto sulla sua non risarcibilità iure ereditario.

L’assenza, d’altro lato, di una sanzione rispetto al gesto di darsi la morte è una situazione del tutto comprensibile (non essendoci più un soggetto sanzionabile) ma di per sé questo non dovrebbe comportare un giudizio di liceità. Il diritto conosce obblighi e doveri senza sanzione. Dal diritto romano abbiamo appreso che esistono leges imperfectae (o minus quam perfectae) prive di sanzione, in contrapposizione a quelle perfectae assistite da sanzione. Proprio nel diritto di famiglia si discute, per esempio, se la norma che impone l’obbligo di fedeltà coniugale (art. 143 c.c.) abbia o meno una sua autonoma sanzione.

La dottrina che si è occupata di questi aspetti per lo più non ritiene che il suicidio possa essere considerato alla stregua di un illecito. C’è da chiedersi in ogni caso se la discussione abbia senso, dal momento che l’unico responsabile dell’illecito sarebbe il soggetto che si suicida e quindi un soggetto oggettivamente non più esposto ad alcuna sanzione. In passato non è sempre stato così: nella Relazione ministeriale sul Progetto del codice penale del 1930 (II, 375) si legge che “il principio che l’individuo non possa liberamente disporre della propria vita, inteso in senso assoluto e rigoroso, indusse taluno ad affermare la penale incriminabilità del suicidio, e, in tempi remoti, trasse ad aberranti e spietate forme di persecuzione contro il cadavere o il patrimonio del suicida”. Ed effettivamente nel Medioevo la legislazione statutaria puniva il suicida con la confisca dei beni”. Tuttavia – continua la Relazione ministeriale - “prevalenti considerazioni politiche… hanno condotto le legislazioni più recenti ad escludere il suicidio dal novero dei reati, limitando la punizione ai casi di partecipazione all’altrui suicidio”..

Un problema di illiceità o meno della morte volontaria potrebbe apparentemente non porsi neanche in caso di suicidio tentato che non comporta conseguenze civilistiche per l’autore del fatto, seppure non è affatto escluso che si possa ipotizzare un danno, anche di natura patrimoniale per i congiunti verso i quali si potrebbero riverberare conseguenze economiche negative derivanti dal tentato suicidio (ma anche dal suicidio). Se tuttavia mancasse l’illecito – come si sostiene in dottrina - non potrebbe parlarsi neanche di danno ingiusto e di conseguenze risarcitorie.

Si può accettare, quindi, la conclusione che né il suicidio né il tentato suicidio assumano con certezza la configurazione di un fatto illecito e che il tema di tale qualificazione sia di fatto storicamente legato soprattutto ad esigenze generali di prevenzione, assicurate dalla configurazione del suicidio come un fatto eticamente e giuridicamente illecito.

Diverso dal tentato suicidio sono naturalmente gli atti autolesionistici in cui manca la volontà di darsi la morte ma in cui il gesto è diretto a raggiungere obiettivi fraudolenti altrimenti irraggiungibili (come una indennità infortunistica o assicurativa o – una volta – la possibilità di essere esonerati dal servizio militare di leva). In tal caso l’atto autolesionistico è indubitabilmente illecito, integrando gli estremi civili e penali di una frode o di una truffa.

Se da un punto civilistico il suicidio e il tentato suicidio potrebbero non essere giuridicamente di per sé fatti illeciti, non altrettanto può dirsi da un punto di vista religioso. La Bibbia considera il suicidio al pari dell’omicidio, dal momento che suicidarsi significa uccidere se stessi. “E’ Dio che deve decidere quando e come una persona dovrebbe morire”. Secondo la Bibbia, prendere quel potere nelle proprie mani significa commettere un peccato. “Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime”. E quindi: “Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo” (numero 2280 Catechismo della Chiesa Cattolica). Insomma “Chi uccide sé stesso uccide un uomo” (Sant’Agostino, De civitate Dei 1, 20).Il suicidio è un gesto “gravemente contrario al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un’offesa all’amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la società familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi” (numero 2281 Catechismo). Al numero 2282 del Catechismo si legge che: “Gravi disturbi psichici, l’angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida”. Perché si possa compiere un peccato grave come il suicidio, infatti, servono tre elementi: la materia grave (ossia il suicidio), la piena avvertenza della mente (sapere cioè che cosa si vuole ottenere, ossia la propria morte) e il deliberato consenso della volontà (ossia la decisione di uccidersi presa lucidamente). Fino al Concilio Vaticano II la Chiesa non consentiva le esequie per i suicidi, che anzi non venivano seppelliti neanche in terra consacrata.

Anche l'Ebraismo tradizionalmente considera il suicidio come un peccato grave (Genesi 9:5). Per l'Islam, ugualmente, il suicidio è uno dei peccati maggiori. Un verso del Corano ammonisce: “E non uccidete voi stessi, sicuramente Allah sarà più misericordioso con voi.” (4:29). Gli studiosi musulmaniconsiderano il suicidio un gesto proibito in qualunque circostanza, compresi gli attacchi suicidi, e citano il verso del Corano come un comandamento che vieta il suicidio. La giurisprudenza islamica è concorde nel qualificare come "martirio" la morte subita ma non quella ricercata o auto-inflitta.

b) Esiste un diritto alla morte? Il rifiuto delle cure (Eluana Englaro, Piergioro Welby)

Il giurista deve però anche interrogarsi – nella prospettiva dei diritti dell’uomo – sui limiti della concezione sociologica tradizionale del suicidio come atto deviante ed esplorare il tema della morte volontaria, pur legata evidentemente a condizioni di sofferenza, non solo come manifestazione di una libertà alterata (diffusa soprattutto tra criminologi, medici e psichiatri) ma nel suo presentarsi come morte anticipata scelta dall’individuo.

Il suicidio come espressione estrema di questa libertà (il diritto alla morte) va annoverato tra i nuovi ed ineludibili temi del sapere giuridico: il consenso informato, il diritto all’interruzione dei trattamenti terapeutici, il testamento biologico, l’eutanasia. Temi che non possono trovare approfondimento esauriente in questa sede nella quale ci si interroga soltanto sugli aspetti penali e civili collegati al suicidio (e al tentato suicidio) soprattutto se determinato o agevolato da terze persone.

Il tema del diritto alla morte è stato esplorato - e di fatto risolto in senso affermativo - tra l’altro nella vicenda molto nota che riguardava la giovane Eluana Englaro che nel gennaio 1992, alle porte di Lecco, appena ventunenne, a causa del fondo stradale ghiacciato perse il controllo dell’auto che guidava, andando a schiantarsi contro un muro e riportando un gravissimo trauma cranico-encefalico con paresi di tutti e quattro gli arti. Restò in coma per molti mesi. La giovane uscì poi dal coma, ma a causa delle lesioni cerebrali irreversibili, fu dichiarata in stato vegetativo. I genitori chiesero ai medici la sospensione dell’alimentazione artificiale effettuata con sondino naso gastrico, portando anche a supporto della richiesta testimonianze di amiche della figlia secondo le quali Eliana - rimasta in passato profondamente scossa dopo aver fatto visita in ospedale ad un amico in coma a seguito di un sinistro stradale – aveva dichiarato, anche ai genitori e pubblicamente a scuola, di ritenere preferibile la situazione di un altro ragazzo, che, nel corso dello stesso incidente, era morto sul colpo, piuttosto che rimanere immobile in ospedale in balia di altri attaccato ad un tubo. Di fronte al rifiuto dei medici il padre della giovane - nominato tutore della figlia nel frattempo interdetta - intraprese la strada giudiziaria.

Nel 1999 il tribunale di Lecco e la Corte d’appello di Milano respinsero la richiesta e la Corte di Cassazione nel 2005 dichiarò inammissibile il ricorso per un vizio del contraddittorio, non essendo stato nominato un curatore speciale (Cass. civ. Sez. I, 20 aprile 2005, n. 8291). Il padre della giovane chiese allora la nomina di un curatore speciale per la figlia e si rivolse di nuovo al Tribunale di Lecco per ottenere un ordine di interruzione dell’alimentazione forzata. Il tribunale nel febbraio 2006 dichiarò inammissibile la richiesta, sostenendo che né il tutore né il curatore speciale nominato che aveva aderito alla richiesta, avevano un potere di rappresentanza nella sfera di diritti personalissimi. Peraltro, anche ove si fosse ritenuto che il curatore o il tutore avessero avuto tale potere, la domanda - ad avviso del tribunale avrebbe dovuto essere rigettata, perché il suo accoglimento avrebbe dovuto essere considerato contrastante con i principi espressi dall'ordinamento costituzionale. Infatti, ai sensi degli artt. 2 e 32 della Costituzione un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo sarebbe lecito, ma addirittura dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà. Avverso tale decreto il tutore proponeva reclamo alla Corte d'appello di Milano che nel dicembre 2006, in riforma del provvedimento impugnato, dichiarava ammissibile il ricorso (in quanto “nel potere di cura della persona, conferito al rappresentante legale dell'incapace, non può non ritenersi compreso il diritto-dovere di esprimere il consenso informato alle terapie mediche”)ma lo rigettava nel merito (in quanto “la vita è un bene supremo, non essendo configurabile l'esistenza di un diritto a morire”).

La Corte di Cassazione, alla quale il tutore e il curatore speciale si rivolsero, accoglieva, invece, questa volta l’impugnazione (Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748) premettendo che “il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”. La Corte approfondiva quindi accuratamente i fondamenti del consenso informato e affermava che il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale e che “deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”.

A tale proposito affermavano i giudici che “benché sia stato talora prospettato un obbligo per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell'"alleanza terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”. Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche – concludevano i giudici - anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d'altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l'obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l'obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa - insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure - quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.

In caso di incapacità del paziente, la doverosità medica trova il proprio fondamento legittimante nei principi costituzionali di ispirazione solidaristica, che consentono ed impongono l'effettuazione di quegli interventi urgenti che risultino nel miglior interesse terapeutico del paziente. E tuttavia, anche in siffatte evenienze, superata l'urgenza dell'intervento derivante dallo stato di necessità, l'istanza personalistica alla base del principio del consenso informato ed il principio di parità di trattamento tra gli individui, a prescindere dal loro stato di capacità, impongono di ricreare il dualismo dei soggetti nel processo di elaborazione della decisione medica: tra medico che deve informare in ordine alla diagnosi e alle possibilità terapeutiche, e paziente che, attraverso il legale rappresentante, possa accettare o rifiutare i trattamenti prospettati. Centrale, in questa direzione, è la disposizione dell'art. 357 cod. civ., la quale - letta in connessione con l'art. 424 cod. civ. - prevede che "Il tutore ha la cura della persona" dell'interdetto, cosi investendo il tutore della legittima posizione di soggetto interlocutore dei medici nel decidere sui trattamenti sanitari da praticare in favore dell'incapace. Poteri di cura del disabile spettano altresì alla persona che sia stata nominata amministratore di sostegno (artt. 404 cod. civ. e ss., introdotti dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6), dovendo il decreto di nomina contenere l'indicazione degli atti che questa è legittimata a compiere a tutela degli interessi di natura anche personale del beneficiario (art. 405 c.c., comma 4).

In ogni caso il carattere personalissimo del diritto alla salute dell'incapace comporta che il riferimento all'istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore, il quale è investito di una funzione di diritto privato, un potere incondizionato di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza. Nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell'incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell'esclusivo interesse dell'incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non "al posto" dell'incapace né "per" l'incapace, ma "con" l'incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. Sulla base delle considerazioni che precedono, la decisione del giudice, dato il coinvolgimento nella vicenda del diritto alla vita come bene supremo, può essere nel senso dell'autorizzazione soltanto (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre che la persona abbia la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, concordanti e convincenti, della voce del rappresentato, tratta dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona.

La Corte d’appello – concludeva la sentenza - ha omesso di ricostruire la presunta volontà della giovane e di dare rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti. Essi non hanno verificato se tali dichiarazioni - della cui attendibilità non hanno peraltro dubitato - ritenute inidonee a configurarsi come un testamento di vita, valessero comunque a delineare, unitamente alle altre risultanze dell'istruttoria, la personalità e il suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l'idea stessa di dignità della persona, alla luce dei suoi valori di riferimento e dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientavano le sue determinazioni volitive; e quindi hanno omesso di accertare se la richiesta di interruzione del trattamento formulata dal padre in veste di tutore riflettesse gli orientamenti di vita della figlia. Tale accertamento dovrà essere effettuato dal giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall'istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale) nella ricostruzione della personalità della ragazza.

Il decreto impugnato veniva annullato e la causa veniva rimessa per la decisione ad una diversa Sezione della Corte d'appello di Milano. Successivamente la Corte di appello di Milano con un decreto in data 9 luglio 2008 autorizzava il padre della giovane in qualità di tutore ad interrompere il trattamento di idratazione e di alimentazione forzata.

Vi furono manifestazioni di dissenso, forti polemiche politiche e numerose resistenze all’interno della stessa magistratura e del mondo medico. Tuttavia il 6 febbraio del 2009 – dopo 17 anni di stato vegetativo - fu avviata la progressiva riduzione dell’alimentazione a seguito della quale il 9 febbraio successivo sopravveniva la morte di Eluana Englaro.

Ben diverso dalla storia di Eluana Englaro è stata la vicenda di Piergiorgio Welby la cui richiesta di morire senza inutili sofferenze venne rigettata dal tribunale di Roma.

A differenza di Eluana Englaro – da anni in stato vegetativo irreversibile – Piergiorgio Welby non era nelle stesse condizioni, sebbene avesse perso le capacita autonome di alimentazione, di respirazione e della parola. Anche per questo forse la soluzione giudiziaria fu diversa. In ogni caso la sentenza della Cassazione sulla vicenda Englaro è successiva alle decisioni del tribunale di Roma sulla vicenda di Piergiorgio Welby che, peraltro, è durata solo pochi mesi.

La malattia di Welby durava dal 1963, anno in cui, diciottenne, gli venne diagnosticata una distrofia muscolare scapolo omerale progressiva, dall’esito certamente infausto. Contrariamente alle previsioni dei medici, il decorso della malattia, seppure inesorabilmente tendente all’aggravarsi, si era dimostrato, da principio, piuttosto lento e graduale. Ciononostante, nel corso degli anni ottanta, Welby aveva perso l’uso delle gambe, per poi assistere, nel corso degli anni novanta, al progressivo deterioramento del proprio stato fisico. Nel luglio del 1997 Welby perde i sensi, a causa dell’insufficienza respiratoria e da quale momento vivrà tracheotomizzato; egli perde la capacità di alimentarsi, di respirare e, sostanzialmente, di parlare in maniera comprensibile: dunque verrà nutrito con un prodotto speciale, respirerà con l’ausilio di un apparato di ventilazione polmonare. Nel 2006 si rivolge al tribunale di Roma chiedendo l’autorizzazione all’interruzione della ventilazione artificiale e alla sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale. Il tribunale rigetta la richiesta sia in fase cautelare (Trib. Roma, 16 dicembre 2006) che di merito (Trib. Roma 23 luglio 2007) in quanto è inammissibile la richiesta di provvedimento avanzata da persona affetta da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo, volta a conseguire la cessazione del suo sostentamento mediante ventilazione artificiale, nonché la contestuale sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale, atteso che – pur se è configurabile il diritto del paziente alla consapevole ed informata autodeterminazione nella scelta delle terapie cui sottoporsi – tale diritto non è in concreto tutelabile, a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative, in particolare con riferimento all’esatta individuazione del c.d. divieto di accanimento terapeutico.

Piergiorgio Welby si rivolge allora ad un medico che si dichiara disponibile e con l’aiuto del quale si spegne la sera del 20 dicembre 2006. Viene ipotizzato, a carico del sanitario, il reato di omicidio del consenziente (art. 579 cod. pen.). Il PM formula richiesta di archiviazione. Il GIP respinge la richiesta di archiviazione e impone al PM di formulare l’imputazione. Il giudice dell’udienza preliminare dichiara, ex art. 425 c.p.p. non luogo a procedere nei confronti del medico in quanto non punibile per la sussistenza, rispetto al suo operato, dell’adempimento di un dovere (G.U.P. Trib. Roma, 23 luglio 2007).

Anche Trib. Modena, 1 dicembre 2008 ha ritenuto che il giudice tutelare ben può prescrivere che l’amministratore di sostegno, mettendo in atto le direttive manifestate e poi reiterate dall'interessato possa legittimamente negare il consenso ai sanitari a praticare al beneficiario qualsivoglia trasfusione di sangue intero, ancorché ritenuta indispensabile per la sopravvivenza. Ed invero, a sensi degli artt. 2, 13 e 32 Cost., è preclusa al medico l'esecuzione di trattamenti sanitari in difetto di quel consenso libero e informato del paziente, che individua un diritto assoluto di quest'ultimo di accettare la terapia, di rifiutarla e di interromperla; e ciò per la sovrana esigenza di rispetto dell'individuo e dell'insieme delle convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che improntano le determinazioni dell'individuo; va ulteriormente precisato che tutte le norme costituzionali a tutela e garanzia di diritti primari, come nel caso di specie l'art. 32 Cost., sono imperative, e di operatività ed applicabilità immediate senza che occorra a tal fine intervento alcuno del legislatore ordinario. Affermazione quest’ultima che suona di critica aperta alle due decisioni del tribunale di Roma relative a Piergiorgio Welby prima richiamate.

c) Eutanasia e suicidio assistito (Fabiano Antoniani)

Sul significato di questi termini vi sono contrasti nella letteratura giuridica e tra le due situazioni vi sono interferenze e sovrapposizioni.

Si parla comunemente di eutanasia quando una legge consente l’uccisione di una persona che si trova in una condizione di malattia o di sofferenza irreversibile o terminale, attraverso la somministrazione di farmaci (eutanasia attiva) o l’interruzione di una terapia di nutrizione o di idratazione (eutanasia passiva). Può essere praticata su richiesta dell’interessato capace di intendere e di volere oppure su richiesta di chi ne ha la rappresentanza ovvero anche a seguito di una dichiarazione di volontà già in precedenza espressa in un atto apposito.

Quindi secondo questa prospettiva, se la morte è l’esito di entrambe le situazioni, eutanasia e rifiuto della terapia dovrebbero essere collocate sullo stesso piano. Giuridicamente, però, si suole considerare l’eutanasia una forma di omicidio del consenziente mentre si colloca il rifiuto della terapie nell’agevolazione al suicidio.

Dal punto di vista dell’esito dei due comportamenti l’affermazione di Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 nella vicenda di Eluana Englaro (Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale) è evidentemente dettata dall’intento di non esasperare la problematicità della decisione. Di fatto, in verità, l’autorizzazione all’interruzione delle cure significa oggettivamente autorizzare la richiesta della morte.

Mentre, infatti, la terapia del dolore (legge15 marzo 2010, n. 38, Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) è certamente dettata dalla intenzione di alleviare le sofferenze e non di causare la morte, viceversa provocare la morte di un paziente con il suo consenso o interrompere le cure, sono atti che cagionano e sono diretti di fatto a cagionare la morte dell’interessato.

Dire quindi che il rifiuto delle cure che porta alla morte non costituisce un’ipotesi di eutanasia è solo un espediente verbale per rendere accettabile il risultato. Meglio sarebbe convenire, allora, sull’esistenza di un diritto a morire e in questa prospettiva non ci si dovrebbe scandalizzare se si usasse il termine eutanasia, che in alcuni ordinamenti indica proprio l’interruzione del trattamento terapeutico indesiderato richiesto dal paziente in gravissimo stato di malattia spesso irreversibile.

All’eutanasia, piaccia o non piaccia, possono perciò essere ricondotte sia la vicenda di Eluana Englaro che quella di Piergiorgio Welby dove l’interruzione del trattamento terapeutico è stato chiesto (ma solo nel primo caso ottenuto) proprio per raggiungere la fine della vita.

Con l’espressione suicidio assistito – meno ambigua ma che pur sempre indica la richiesta di essere aiutati a morire - ci si riferisce alla possibilità di consentire ad una struttura medica di agevolare una persona nel suicidio. Si tratta di una decisione in genere anch’essa legata a condizioni di sofferenza causata da una malattia che tuttavia lascia residuare una capacità di intendere e di volere. In alcuni ordinamenti (es. Svizzera, Belgio, Olanda, Lussemburgo) la pratica è legalizzata ed infatti ha consentito di accedervi in Svizzera a persone di cui la cronaca ha ampiamente parlato.

È questo il caso di Fabiano Antoniani (il Dj Fabo) che, anziché rivolgersi ai tribunali, ha scelto nel febbraio 2017 la strada del suicidio assistito in Svizzera.

Secondo un Autore molto attento a queste problematiche (Marco Azzalini, Trattamenti life-saving e consenso del paziente: i doveri del medico dinanzi al rifiuto di cure, in Nuova Giur. Civ., 2008, 1, 76) la fattispecie del rifiuto di cure non dovrebbe essere inquadrata, ne’ all’interno dell’eutanasia, ne’ all’interno del suicidio assistito. Si riconosce che l’inquadramento è problematico dal momento che “le infinite precisazioni, distinzioni, definizioni e discrepanze che la dottrina non è riuscita mai ad evitare in tema di eutanasia finiscono con il rendere conto della vaghezza assoluta del concetto, che finisce per un verso con l’avere assai poco di giuridico e per altro verso con il non consentire, in effetti, una adeguata considerazione delle specificità delle singole ipotesi concrete”. Il che è come dire che non c’è alcune certezza sulle qualificazioni che vengono a tale proposito proposte.

In ogni caso l’uccisione di un’altra persona per porre fine alle sue sofferenze – con il suo consenso o meno - non meriterebbe secondo la giurisprudenza neanche l’attenuante di aver agito per motivi di particolare valore morale.

In una vicenda trattata da Cass. pen. Sez. I, 12 novembre 2015, n. 12928 in cui l'imputato era stato condannato per omicidio nei confronti della moglie – anziché per omicidio del consenziente come reclamava – i giudici affermavano che è configurabile il delitto di omicidio volontario, e non l'omicidio del consenziente, in caso di mancanza di una prova univoca, chiara e convincente della volontà di morire manifestata dalla vittima, dovendo in tal caso riconoscersi assoluta prevalenza al diritto alla vita, quale diritto personalissimo, che non attribuisce a terzi, neanche ad un familiare, il potere di disporre, anche in base alla propria percezione della qualità della vita, dell'integrità fisica altrui (su questo punto anche Cass. pen. Sez. 1, 17 novembre 2010 n. 43954). I giudici non accolsero neanche la richiesta di applicazione dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 1, c.p. (motivi di particolare valore morale intendendo perseguire esclusivamente la finalità altruistica di porre fine alle atroci sofferenze della consorte, vittima di degenerazione cronica), in quanto, ai fini della sua configurabilità occorre che i motivi del reato siano genericamente apprezzabili o positivamente valutabili, risultando inviolabile il bene primario della vita, situazione che non si riscontra nell’ipotesi di uccisione di un congiunto per porre fine alle sue sofferenze. Ciò in quanto i motivi considerati dall'art. 62 c.p., n. 1, devono corrispondere a valori etici o sociali effettivamente apprezzabili e, come tali, riconosciuti preminenti dalla collettività ed intorno ai quali si realizzi un diffuso consenso (come anche precisato da Cass. pen. Sez. I, 8 aprile 2015 n. 20443; Cass. pen. Sez. I, 29 aprile 2010 n. 20312). Deve trattarsi di principi generalmente approvati dalla società, in cui agisce chi tiene la condotta criminosa ed in quel determinato momento storico, appunto per il loro valore morale o sociale particolarmente elevato, in modo da sminuire l'antisocialità dell'azione criminale. Le discussioni tuttora esistenti sulla condivisibilità o meno dell'eutanasia – affermano i giudici - sono sintomatiche della mancanza di un suo attuale apprezzamento positivo pubblico, risultando anzi larghe fasce di contrasto nella società italiana contemporanea; non ricorre, pertanto, la generale valutazione positiva da un punto di vista etico-morale, condizionante la qualificazione del motivo come "di particolare valore morale e sociale".

Attualmente sono in discussione dal febbraio 2017 in sede referente in Commissione Affari sociali della Camera dei Deputati otto progetti di legge sul testamento biologico, ovvero, specificamente, sulla cosiddetta DAT (“Dichiarazione di volontà anticipata nei trattamenti sanitari). Nella relazione introduttiva dell’on. Donata Lenzi sono spiegati i punti qualificanti della normativa.

Al primo punto vi è il principio della volontarietà del trattamento medico riaffermandosi che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Il consenso informato ad ogni trattamento sanitario è quindi l'atto fondante dell'alleanza terapeutica, e il medico ha diritto di intervenire in mancanza di questo solo qualora il paziente si trovi in imminente pericolo di vita. Ogni persona capace di intendere e di volereha il diritto di conoscere i dati sanitari che la riguardano e di esserne informatain modo completo e comprensibile. Tali informazioni costituiscono un obbligo per il medico. Per i minori e gli interdetti quasi tutti i progetti prevedono che il consenso sia espresso o negato dagli esercenti la responsabilità genitoriale, oppure dal tutore o dall’amministratore di sostegno.

Le persone maggiorenni capaci di intendere e di volere possono redigere una dichiarazione anticipata di trattamento (DAT) in cui indicano la propria volontà in merito ai trattamenti sanitari e di cura, inclusa la nutrizione artificiale, che si può rifiutare o a cui si può rinunciare, in previsione di un'eventuale futura perdita irreversibile della propria capacità di intendere e di volere, nonché le eventuali disposizioni relative alla donazione del proprio corpo post-mortem, alla donazione di organi e alle modalità di sepoltura e di assistenza religiosa.L'efficacia di tale dichiarazione produce effetto dal momento in cui interviene lo stato di privazione di capacità decisionaledel paziente accertato da un collegio medico e notificata al fiduciario o al tutore o ai parenti. Alcune proposte collegano l'efficacia della dichiarazione anticipata di trattamento all'accertamento che il soggetto in stato vegetativo non è più in grado di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario da parte di un collegio medico. Il medico può disattendere le DAT qualora sussistano motivate e documentabili possibilità di poter altrimenti conseguire ulteriori benefìci per il paziente, in accordo con il soggetto fiduciario e con i familiari del medesimo paziente. In ogni caso il medico non può prendere in considerazione orientamenti volti a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica.

I progetti prevedono l'indicazione nella DAT di un soggettofiduciario, che si impegna ad agire nell'esclusivo e migliore interesse della persona che lo ha nominato. In caso di contrasto tra fiduciario e parenti, la decisione è assunta dal comitato etico della struttura sanitaria, sentiti i pareri contrastanti. In caso di impossibilità del comitato etico a pervenire a una decisione, si ricorre algiudice.

La Commissione Affari sociali esaminerà solo consenso informato e dichiarazioni anticipate.

Un progetto soltanto – che verrà però discusso verosimilmente in Commissione giustizia - prevede il diritto del paziente al rifiuto, alla rinuncia o all'interruzione dei trattamenti sanitari mentre gli altri prevedono una norma contro l'accanimento terapeutico nel senso che è prevista l'astensione del medico da trattamenti sanitari non proporzionati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura.

Si conferma, poi, ildivieto dell'eutanasia e dell'assistenza al suicidio (unite da un medesimo poco chiaro comune denominatore – senza specificare però in che cosa si differenzierebbero dall’esito del rifiuto delle cure.

Per concludere, nel panorama giuridico Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 ha ammesso l’interruzione del trattamento in vita su persona in stato vegetativo irreversibile incapace di intendere e di volere, su domande del curatore e sul presupposto che in vita l’interessato aveva espresso una volontà non contraria a questo esito (caso Englaro); Trib. Roma, 16 dicembre 2006 e Trib. Roma 23 luglio 2007 hanno negato lo stesso diritto a persona capace di intendere e di volere affetta da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo (caso Welby). Il suicidio assistito all’estero, in queste condizioni di disorientamento giurisprudenziale, è apparsa agli interessati l’unica strada percorribile (caso Antoniani).

Gianfranco Dosi
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Lessico di diritto di famiglia