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LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA®
PROVE GENETICHE

I

Le prove genetiche nella prospettiva del favor veritatis

Le prove genetiche (nella forma della consulenza tecnica d’ufficio) sono state negli ultimi decenni largamente utilizzate nelle azioni di accertamento e disconoscimento della paternità. La loro affidabilità scientifica ha cominciato ad essere recepita in giurisprudenza fin dagli anni ottanta (Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 1980, n. 6400; Cass. civ. Sez. I, 21 aprile 1983, n. 2736; Cass. civ. Sez. I, 12 gennaio 1984, n. 247; Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 1984, n. 3660; Cass. civ. Sez. I, 12 novembre 1984, n. 5687; Cass. civ. Sez. I, 19 febbraio 1987, n. 1788), anche se alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità sono state - soprattutto in passato - inclini ad attribuire alle prove genetiche non un protagonismo decisionale in sé, ma soprattutto un valore confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale (Cass. civ. Sez. I, 7 maggio 1983, n. 3112; Cass. civ. Sez. I, 16 febbraio 1989, n. 917; Cass. civ. Sez. I, 27 febbraio 1989, n. 1064; Cass. civ. Sez. I, 18 giugno 1991, n. 6858; Cass. civ. Sez. I, 23 gennaio 1993, n. 791; Cass. civ. Sez. I, 18 aprile 1997, n. 3342).

Fondamentale è stato il contributo della Corte costituzionale che, soprattutto con l’importante decisione Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 richiamava autorevolmente le “avanzate acquisizioni scientifiche nel campo della genetica e l’elevatissimo grado di attendibilità dei risultati delle indagini”.

La giurisprudenza ha preso così sempre più consapevolezza dell’affidabilità delle prove genetiche che possono “fornire elementi di valutazione non solo per escludere, ma anche per affermare il rapporto biologico di paternità, anche quando le risultanze delle indagini consentono una valutazione meramente probabilistica, attesa la natura probabilistica di tutte le asserzioni delle scienze fisiche e naturalistiche” (Cass. civ. Sez. I, 22 luglio 2004, n. 13665).

E il giudizio si massima affidabilità viene ribadito costantemente anche dalla giurisprudenza di merito (Trib. Roma Sez. I, 21 febbraio 2014) edè stato affermato anche in sede penale con l’attribuzione ai riscontri genetici del valore di prova e non solamente indiziario (Cass. pen. Sez. II, 5 febbraio 2013, n. 8434).

Si è così giunti gradualmente ad un cambio di prospettiva consistente nel considerare le prove scientifiche decisamente come prevalenti sulle altre.

La nuova impostazione si deve a Corte cost. 6 luglio 2006, n. 266 che – richiamandosi ai “progressi della scienza biomedica che, ormai, attraverso le prove genetiche od ematologiche, consentono di accertare la esistenza o la non esistenza del rapporto di filiazione” – dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 235, comma 2, codice civile, nella parte in cui subordinava l’accesso alle prove ematologiche alla previa dimostrazione dell’adulterio della moglie. Non è più necessaria, quindi, la prova dell’adulterio (secondo quanto prescriveva la norma del codice civile) per richiedere l’espletamento della CTU ematologica e genetica.

Il principio è ormai anche transitato anche sul versante dell’accertamento della paternità come si desume chiaramente da Cass. civ. Sez. I, 23 febbraio 2016, n. 3479 che proprio in tema di dichiarazione giudiziale di paternità ha precisato che l'ammissione degli accertamenti immuno-ematologici non è subordinata all'esito della prova storica dell'esistenza di un rapporto sessuale tra il presunto padre e la madre, giacché il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall'art. 269, comma 2, c.c., non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una gerarchia assiologica tra i mezzi istruttori idonei a dimostrare quella paternità, né, conseguentemente, mediante l'imposizione, al giudice, di una sorta di "ordine cronologico" nella loro ammissione ed assunzione, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova pari valore per espressa disposizione di legge, e risolvendosi una diversa interpretazione in un sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione in relazione alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo "status".

Nella prospettiva di un accertamento privo di ostacoli della verità biologica si era d’altra parte posta autorevolmente Corte cost. 10 febbraio 2006, n. 50 che, dichiarando incostituzionale la fase di ammissibilità prevista nell’art. 274 c.c. ha parlato di manifesta irragionevolezza di un normativa “che si risolve in un grave ostacolo all’esercizio del diritto di azione garantito dall’art. 24 Cost., e ciò, per giunta, in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali, attinenti allo status ed alla identità biologica”.

Questo lento cammino verso la piena fiducia probatoria delle prove scientifiche nell’accertamento e nel disconoscimento della paternità ha fatto emergere anche più chiaramente in giurisprudenza la consapevolezza circa la prevalenza, nel sistema della filiazione, del favor veritatis. Si può certamente ritenere che l’orientamento sulla piena fiducia probatoria delle prove scientifiche non sia altro che la conseguenza processuale della raggiunta consapevolezza sulla prevalenza del favor veritatis.

Ad esprimere – anche con una certa perentorietà - questa consapevolezza è stata all’inizio soprattutto la Corte costituzionale. Per esempio in Corte cost. 1 aprile 1982, n. 64 si riconosceva espressamente che “la riforma del diritto di famiglia ha indubbiamente spostato l’accento dal favor legitimitatis al favor veritatis”. Analogamente in Corte cost. 6 maggio 1985, n. 134 si precisava che “Negli ultimi decenni la coscienza collettiva si è ulteriormente evoluta nel senso di accordare maggiore rilevanza al rapporto effettivo di procreazione rispetto alla qualificazione giuridica della filiazione”. Gli stessi principi sono poi stati richiamati in seguito, con la stessa efficacia, per esempio da Corte cost. 22 aprile 1997, n. 112 dove si afferma, in riferimento all’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, che l’autenticità (cioè la verità) del rapporto di filiazione costituisce l’essenza stessa dell’interesse del minore e da Corte cost. 14 maggio 1999, n. 170 – sopra già ricordata - che, in relazione al termine dell’azione di disconoscimento ancorato alla conoscenza dei presupposti indicati nel codice civile, ha affermato che il legislatore della riforma del diritto di famiglia ha superato - attraverso la equiparazione della filiazione naturale a quella legittima - la impostazione tradizionale che attribuiva preminenza al favor legitimitatis.

Proprio riallacciandosi al significato di queste pronunce sulla piena affidabilità scientifica degli esami genetici e sulla prevalenza del favor veritatis la recente riforma della filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e decreto legislativo 28 dicembre 2013, n. 154) ha eliminato nelle azioni di accertamento e disconoscimento della paternità ogni impedimento all’accesso immediato alle prove ematologiche e genetiche e ogni tipizzazione delle ipotesi per intraprendere l’azione. Il nuovo art. 243-bis del codice civile (disconoscimento di paternità) afferma al secondo comma che “chi esercita l’azione è ammesso a provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre”. Il secondo comma dell’art. 269 (“dichiarazione giudiziale di paternità e maternità”) conferma sul versante della filiazione fuori dal matrimonio che “la prova della paternità e della maternità può essere data con ogni mezzo”. Affermazione legislativa - che la legge 219/2012 non ha modificato e che quindi già era molto chiara anche prima della riforma – che sconfessa quell’orientamento di una certa giurisprudenza, citato all’inizio, che è incline ad attribuire alle prove genetiche un valore non tanto in sé quanto confermativo delle prove raccolte in modo tradizionale. Orientamento sintomatico di una cultura scettica verso le prove genetiche che altro non sono se non prove come tutte le altre.

Si può, quindi, certamente affermare che l’ampia e incondizionata possibilità oggi prevista di ricorrere nelle cause di status alla prova genetica, potrebbe sembrare non essere altro che la conferma dell’orientamento del legislatore improntato alla prevalenza del favor veritatissia sul versante del disconoscimento della paternità che su quello dell’azione di riconoscimento.Ne è indizio ragionevolmente consistente il permanere sia pure solo per il figlio – dopo la riforma della filiazione del 2013 – di un’area di imprescrittibilità dell’azione di disconoscimento[1] e di impugnazione del riconoscimento[2] che certamente si giustifica solo per la prevalenza data alla verità nell’interesse del figlio stresso.

Il che però non ha portato la giurisprudenza ad affermare il principio della corrispondenza tra identità genetica e interesse del figlio (Trib. Roma, Sez. I, 8 agosto 2014 che espressamente non ha ritenuto il principio della verità genetica nei rapporti di filiazione sovraordinato rispetto all’interesse del figlio). Sui limiti della tutela dell’identità genetica considerazioni anche in Corte cost. 10 giugno 2014, n. 162 dove – dichiarando incostituzionale il divieto assoluto di fecondazione eterologa - si osserva che il divieto assoluto non è tra l’altro giustificabile dalla necessità di tutelare, nell'ambito del bilanciamento degli interessi costituzionalmente coinvolti, il diritto del nato da Procreazione Medicalmente Assistita di tipo eterologo all'identità genetica, poiché l'ordinamento ammette a determinate condizioni la possibilità per il figlio di accedere alle informazioni relative all'identità dei genitori biologici.


[1]Art. 244. Termini dell'azione di disconoscimento.

L'azione di disconoscimento della paternità da parte della madre deve essere proposta nel termine di sei mesi dalla nascita del figlio ovvero dal giorno in cui è venuta a conoscenza dell'impotenza di generare del marito al tempo del concepimento.

Il marito può disconoscere il figlio nel termine di un anno che decorre dal giorno della nascita quando egli si trovava al tempo di questa nel luogo in cui è nato il figlio; se prova di aver ignorato la propria impotenza di generare ovvero l'adulterio della moglie al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza.

Se il marito non si trovava nel luogo in cuiè nato il figlio il giorno della nascita il termine, di cui al secondo comma, decorre dal giorno del suo ritorno o dal giorno del ritorno nella residenza familiare se egli ne era lontano. In ogni caso, se egli prova di non aver avuto notizia della nascita in detti giorni, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto notizia.

Nei casi previsti dal primo e dal secondo comma l'azione non può; essere, comunque, proposta oltre cinque anni dal giorno della nascita.

L'azione di disconoscimento della paternità può essere proposta dal figlio che ha raggiunto la maggiore età. L'azioneè imprescrittibile riguardo al figlio.

L'azione può essere altresì promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, assunte sommarie informazioni, su istanza del figlio minore che ha compiuto i quattordici anni ovvero del pubblico ministero o dell'altro genitore, quando si tratti di figlio di età inferiore.

[2]Art. 263. Impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità.

Il riconoscimento può essere impugnato per difetto di veridicità dall'autore del riconoscimento, da colui cheè stato riconosciuto e da chiunque vi abbia interesse.

L'azioneè imprescrittibile riguardo al figlio.

L'azione di impugnazione da parte dell'autore del riconoscimento deve essere proposta nel termine di un anno che decorre dal giorno dell'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Se l'autore del riconoscimento prova di aver ignorato la propria impotenza al tempo del concepimento, il termine decorre dal giorno in cui ne ha avuto conoscenza; nello stesso termine, la madre che abbia effettuato il riconoscimentoè ammessa a provare di aver ignorato l'impotenza del presunto padre. L'azione non può essere comunque proposta oltre cinque anni dall'annotazione del riconoscimento.

L'azione di impugnazione da parte degli altri legittimati deve essere proposta nel termine di cinque anni che decorrono dal giorno dall'annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita. Si applica l'articolo 245.

Gianfranco Dosi
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