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Il superamento del principio di necessaria infertilità per l’accesso alle tecniche di PMA previsto nella legge 19 febbraio 2004, n. 40 (corte cost. 96/2015)
La legge 19 febbraio 2004, n. 40 (Norme in materia di procreazione medicalmente assistita)– il cui testo è riportato in appendice - consente il ricorso alle procedure di procreazione medicalmente assistita (PMA) “al fine di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità umana” e “qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità” (art. 1). In tal modo l’accesso alle procedure di PMA è condizionato alle finalità indicate.
Il primo principio fondamentale che viene affermato ha, quindi, natura limitativa e riguarda l’accesso alle tecniche di PMA che è consentito non sempre, come espressione di un diritto all’autodeterminazione della persona, ma a condizione che e “solo quando sia accertata l'impossibilità di rimuovere altrimenti le cause impeditive della procreazione” ed è comunque circoscritto “ai casi di sterilità o di infertilità inspiegate documentate da atto medico nonché ai casi di sterilità o di infertilità da causa accertata e certificata da atto medico” (art. 4).
Nelle intenzioni del legislatore la giustificazione di questa limitazione legislativa sta anche nella invasività delle tecniche di PMA che, proprio per questo, la legge richiede che vengano applicate con gradualità, “al fine di evitare il ricorso ad interventi aventi un grado di invasività tecnico e psicologico più gravoso per i destinatari, ispirandosi al principio della minore invasività”. Diritti e cautele sono quindi accostati all’interno di una prudente enunciazione del principio generale di accesso condizionato alle tecniche di PMA.
Considerato che l’accesso alle tecniche di PMA è ammesso solo nei casi di infertilità o sterilità, ne consegue che una coppia che non presenta problematiche riproduttive, non potrebbe accedere a tali tecniche ancorché uno della coppia sia portatore di gravi patologie trasmissibili per via ereditaria.
Il Decreto del Ministero della Salute n. 31639 dell'11 aprile 2008(linee guida del 2008, ora sostituite da quelle del 2015) prevedeva(e prevedono ancora) che, ai fini dell'accesso alle tecniche della procreazione medicalmente assistita, quest'ultima deve essere effettuata, tenendo conto anche di quelle peculiari condizioni in presenza delle quali - essendo l'uomo portatore di malattie virali sessualmente trasmissibili per infezioni da HIV, epatite B e C - l'elevato rischio di infezione per la madre o per il feto costituisce di fatto, in termini obiettivi, una causa ostativa della procreazione, imponendo l'adozione di precauzioni che si traducono, necessariamente, in una condizione di infecondità', da farsi rientrare tra i casi di infertilità' maschile severa da causa accertata e certificata da atto medico, di cui all'art. 4, comma 1, della legge n. 40 del 2004..
Al di fuori di questi casi l’accesso alle tecniche di PMA non sarebbe stato quindi consentito.
Nell’ambito di questi principi di natura proibizionistica in una sentenza del 2007 la prima sezione penale della Corte di cassazione affermava che la previsione normativa del diritto di detenuti ed internati di richiedere di essere visitati a proprie spese da un sanitario di fiducia non legittima la richiesta di ammissione alla procedura di accesso alla procreazione medicalmente assistita, dal momento che il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita non rientra nella nozione di profilassi e cura della salute (Cass. pen. Sez. I, 10 maggio 2007, n. 20673).
Successivamente, nel 2008, però, sempre la prima sezione penale della Corte di cassazione chiariva che l’accesso alle tecniche riproduttive medicalmente assistite va considerato nell’ambito dei diritti all’autodeterminazione della persona (Cass. pen. Sez. I, 30 gennaio 2008, n. 7791). Il principio veniva espresso in una vicenda in cui un magistrato di sorveglianza aveva dichiarato non luogo a provvedere in ordine al reclamo proposto da un condannato in regime speciale avverso il diniego del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria di consentirgli l'accesso al programma di procreazione assistita, ancorché risultasse medicalmente accertata una patologia giustificativa del trattamento invocato. Il magistrato di sorveglianza – affermavano i giudici - è tenuto a pronunciarsi, valutando la tutelabilità concreta della pretesa avanzata dal condannato, secondo un criterio di proporzione tra esigenze di sicurezza sociale e penitenziaria e interesse della singola persona.
A mettere in discussione,fino al suo superamento, l’impostazione della legge che condizionava l’accesso alla PMA alla infertilità, è stata la giurisprudenza successiva.
a) Nel gennaio 2010 il tribunale si Salerno accoglieva la richiesta di una coppia fertile portatrice di atrofia muscolare, di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Trib. Salerno, 9 gennaio 2010).
b) Il problema venne, subito dopo, ripreso anche da una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte europea dei diritti dell'uomo, 28 agosto 2012 - Causa Costa e Pavan c. Italia) che si occupò di una vicenda nella quale la coppia che aveva chiesto di accedere alla PMA non presentava problematiche riproduttive ma erano portatori di una patologia trasmissibile non ricompresa, però, tra quelle infezioni gravi che secondo il decreto sopra richiamato del Ministero della Sanità avrebbero consentito l’accesso alle PMA. Era avvenuto che nel 2006 due coniugi avevano avuto una bambina con la fibrosi cistica e scoprirono in questo modo di essere portatori sani della malattia. Quando la donna rimase nuovamente incinta, nel 2010, si sottopose alla diagnosi prenatale e il feto risultò positivo alla malattia: quindi interruppe la gravidanza. La coppia successivamente, desiderando un altro bambino per avere la certezza che fosse sano,ricorse alla fertilizzazione in vitro ma l’accesso alle PMA fu negato perché secondo la legge e il Ministero della Sanità- come sopra detto – le tecniche di PMA erano consentite solo per le coppie infertili oppure in presenza di quelle infezioni molto gravi di cui si è detto.Invocando l’articolo 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo, i ricorrenti lamentavano la violazione del loro diritto al rispetto della vita privata e familiare a motivo del fatto che, per loro, l’unica strada percorribile per generare figli non affetti dalla malattia di cui erano portatori sani, sarebbe stata iniziare una gravidanza secondo natura e procedere poi all’interruzione medica di gravidanza ove una diagnosi prenatale (effettuata nel corso della gravidanza) avesse dovuto rivelare che il feto è malato.
Per capire bene la questione si deve considerare che i progressi della medicina della riproduzione offrono da tempo la possibilità di evitare le malattie genetiche, grazie al trasferimento selettivo degli embrioni dopo una diagnosi genetica preimpianto (che si effettua nell’ambito di una PMA con la stimolazione ovarica, il prelievo di ovociti, la fecondazione in vitro di più ovociti maturi, il prelievo di 1 o 2 cellule embrionali, l'analisi genetica dei materiali del nucleo delle cellule prelevate e, infine, la selezione e il trasferimento di embrioni non portatori dell'anomalia genetica in questione). Questa tecnica è in sostanza, come detto, una tecnica di PMA ed è l’alternativa alla diagnosi genetica prenatale tradizionale per le coppie che rischiava di trasmettere una anomalia genetica particolarmente grave, risparmiando a tali coppie in questo modo una scelta difficile sulla eventuale interruzione di gravidanza.
Come osservava la Corte europea all’interno della sentenza,la diagnosi preimpianto nei paesi in cui è praticata, è diventata una metodica clinica ben sperimentata per analizzare le caratteristiche genetiche degli embrioni dopo fecondazione in vitro e per ottenere informazioni che consentano di selezionare gli embrioni da trasferire. La diagnosi preimpianto è richiesta principalmente dalle coppie portatrici di caratteri genetici che possono trasmettere ai loro discendenti malattie gravi o provocare decessi prematuri, che desiderano evitare una gravidanza che potrebbe non arrivare a termine o porli di fronte alla scelta difficile di una eventuale interruzione nel caso venga rilevato un problema genetico particolarmente grave.
Il Governo italiano aveva sostenuto che i ricorrenti lamentavano la violazione di un inesistente diritto ad avere un figlio sano. Viceversa la Corte affermava che il diritto invocato dai ricorrenti altro non era se non quello di accedere alle tecniche della procreazione assistita e poi alla diagnosi preimpianto per poter mettere al mondo un figlio non affetto da mucoviscidosi, malattia genetica di cui erano portatori sani.
Secondo la Corte il concetto di “vita privata” ai sensi dell’articolo 8 è un concetto ampio comprendente, tra gli altri, il diritto dell’individuo ad allacciare e sviluppare rapporti con i simili, il diritto allo “sviluppo personale” e ancora il diritto all’autodeterminazione. Anche fattori quali l’identificazione, l’orientamento e la vita sessuale rientrano nella sfera personale tutelata dall’articolo 8, così come il diritto al rispetto della decisione di diventare o di non diventare genitore. Sotto il profilo dell’articolo 8 della Convenzione, la Corte riconosceva quindi il diritto dei ricorrenti al rispetto della decisione di diventare genitori genetici. A giudizio della Corte, il desiderio della coppia di mettere al mondo un figlio non affetto dalla malattia genetica di cui erano portatori sani e di ricorrere, a tal fine, alla procreazione medicalmente assistita e alla diagnosi preimpianto rientra nel campo della tutela offerta dall’articolo 8.
c) Nel 2013 – sotto la spinta della decisione sopra esaminata della Corte europea dei diritti dell’uomo - il tribunale di Roma accoglieva con provvedimento di urgenza lungamente motivato la richiesta di una coppia fertile ma anche in questo caso portatrice di malattie genetiche trasmissibili di accedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, comprensive della diagnosi e della selezione preimpianto degli embrioni (Trib. Roma, 26 settembre 2013).
d) Lo stesso tribunale di Roma nel 2014 sollevava con due ordinanze questione di legittimità costituzionale degli articoli 1, comma 1 e 4, e 4, comma 1, della legge. 19 febbraio 2004, n. 40, nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di patologie geneticamente trasmissibili, in riferimento agli artt. 2 (diritti inviolabili dell'uomo), 3 (principi di eguaglianza e razionalità), 32 Cost. (diritto alla salute), quest'ultimo in relazione agli artt. 8 (rispetto della vita privata e familiare) e 14 (divieto di discriminazione) della convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, quali norme interposte (Trib. Roma, 15 gennaio 2014). Due coppie di coniugi senza problemi di fertilità avevano chiesto di essere ammesse a procedure a procreazione medicalmente assistita, con diagnosi preimpianto, al fine di evitare il rischio di trasmettere, ai rispettivi figli, la malattia genetica da cui, in entrambi i casi, uno dei componenti della coppia era risultato affetto in occasione di precedente gravidanza spontanea, interrotta con aborto terapeutico.
e) La Corte costituzionale nel 2015, aderendo all’impostazione del giudice remittente, ha dichiarato costituzionalmente illegittimi, per violazione degli artt. 3 e 32 Cost., gli artt. 1 e 4, della legge nella parte in cui non consentono il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita alle coppie fertili portatrici di gravi malattie genetiche trasmissibili, accertate da apposite strutture pubbliche (Corte cost. 5 giugno 2015, n. 96) rilevando l'irragionevolezza dell'indiscriminato divieto di accesso alla PMA, con diagnosi preimpianto, da parte delle coppie fertili affette da gravi patologie genetiche ereditarie, suscettibili, secondo evidenze scientifiche, di trasmettere al nascituro rilevanti anomalie o malformazioni. D’altro lato – ha fatto rilevare la Corte - l'ordinamento italiano consente, comunque, a tali coppie di perseguire l'obiettivo di procreare un figlio non affetto dalla specifica patologia ereditaria, attraverso l'innegabilmente più traumatica modalità dell'interruzione volontaria (anche reiterata) di gravidanze naturali. Tale sistema normativo non permette, pur essendo scientificamente possibile, di far acquisire "prima" alla donna un'informazione che le potrebbe evitare di assumere "dopo" una decisione ben più pregiudizievole per la sua salute, senza che quest'ultima possa trovare un positivo contrappeso, in termini di bilanciamento, in un'esigenza di tutela del nascituro, in ogni caso esposto all'aborto.
La normativa denunciata costituisce, pertanto affermano i giudici della Corte Costituzionale - il risultato di un irragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, in violazione anche del canone della razionalità dell'ordinamento, ed è lesiva del diritto alla salute della donna fertile portatrice (ella o l'altro soggetto della coppia) di grave malattia genetica ereditaria.
Spetta al legislatore – conclude la Corte - introdurre apposite disposizioni al fine dell'auspicabile individuazione (anche periodica, sulla base dell'evoluzione tecnico-scientifica) delle patologie che possono giustificare l'accesso alla PMA di coppie fertili e delle correlative procedure di accertamento (anche agli effetti della preliminare sottoposizione alla diagnosi preimpianto) e di un'opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle.