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LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA®
PATTI SUCCESSORI

I

Perché sono vietati i patti successori?

Da un punto di vista strettamente giuridico, una volta stabilito nell’art. 457 c.c. che “l’eredità si devolve per legge o per testamento” è evidente che non vi può essere spazio nell’ordinamento positivo per una negozialità mortis causa. E’ questo il senso dell’art. 458 c.c. che dichiara “nulla ogni convenzione con cui taluno dispone della propria successione” o “dei diritti che gli possono spettare su una successione non ancora aperta, o rinuncia ai medesimi”.

La norma prende in considerazione nella prima parte i cosiddetti patti istitutivi e nella seconda parte quelli dispositivi e rinunciativi.

Un applicazione del divieto di qualsiasi patto successorio è indicato nell’art. 2122 ultimo comma c.c. dove, in riferimento alle indennità in caso di morte del prestatore di lavoro, si prevede che “è nullo ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro, circa l’attribuzione e la ripartizione delle indennità”.

La finalità del divieto dei patti successori istitutivi (contra bonos mores, secondo il diritto romano) è, intuitivamente, quella sostanzialmente di conservare per chiunque la libertà di disporre dei propri beni per tutta la durata della vita, senza che questa libertà possa essere lesa da limitazioni stabilite contrattualmente. Disporre, infatti, "mortis causa" dei propri beni significa assegnare a terzi in via contrattuale, preventiva ed irrevocabile beni o diritti facenti parte della propria eredità.

Come si vedrà la distinzione tra atto mortis causae attointer vivos post mortem,costituisce a tutt’oggi il punto di partenza per ogni riflessione in materia di divieto di patti successori. Il confine tra ipotesipost mortemvalide emortis causainvalide alla luce del divieto dei patti successori non è sempre chiaro e ben delineato.

Solamente il patto istitutivo, ovvero l’accordo con il quale un soggetto regolamenta con un beneficiario l’assetto della propria vicenda successoria, si configura come atto a causa di morte, mentre i patti dispositivi e rinunciativi, avendo ad oggetto diritti successori non ancora entrati nel patrimonio del disponente, sono qualificabili come attiinter vivos

Si legge in Cass. civ. Sez. III, 23 aprile 1992, n. 4912 che con il patto istitutivo il "de cuius" conclude (normalmente con il proprio erede o legatario) un contratto successorio disponendo della propria successione, contratto questo vietato perché l'eredità si devolve solo per legge o per testamento (art. 457 c.c.) ed il legislatore intende assicurare la libertà testamentaria, la libertà del "de cuius" di disporre della propria successione fino al termine della vita.

Il principio secondo cui il testatore ha piena libertà di disporre dei propri beni fino al momento della morte ha valenza di principio fondamentale di ordine pubblico (Cass. civ. Sez. II, 19 novembre 2009, n. 24450; Cass. civ. Sez. II, 14 luglio 1983, n. 4827).

Diversa valenza ha, invece, il divieto dei patti dispositivi e rinunciativi in cui francamente non si ravvedono quelle ragioni di ordine pubblico che giustificano il divieto dei patti istitutivi.

Mediante il patto dispositivo, un soggetto dispone non della propria successione, ma dei diritti che potranno spettargli succedendo a causa di morte ad un altro soggetto. Mentre con il patto rinunziativo un soggetto rinuncia ai diritti che gli possono derivare da una successione futura.

Come si vede, quindi, il testatore rimane fuori da questi accordi e pertanto non si può certamente parlare di compressione della volontà del testatore.

Le ultime due figure, perciò, non incidendo direttamente sul fenomeno successorio vero e proprio sono atti "inter vivos" e non "mortis causa" e la ragione del relativo divieto, sanzionato con la nullità non si riscontra nella libertà testamentaria, ma in motivi diversi e meno determinanti che sono stati ravvisati nell'esigenza di tutelare soggetti poco accorti - i quali potrebbero dilapidare con anticipo i beni eventualmente derivanti da una futura successione - e di precludere anche il desiderio di morte del "de cuius" ("votum captandae mortis") e pertanto la ragione del divieto dei patti dispositivi e rinunciativi è individuata in varie esigenze “come quelle di impedire a giovani inesperti e prodighi di dilapidare tutte le loro sostanze prima ancora di venirne in possesso, ovvero di evitare convenzioni immorali e socialmente pericolose (votum captandae mortis), oppure di rendere certo e operativo il traffico giuridico. Solo l'istituzione contrattuale di erede e il legato attribuito mediante contratto (patti successori istitutivi) si configurano come vere e proprie disposizioni mortis causa (Cass. civ. Sez. II, 9 maggio 2000, n. 5870).

Naturalmente – come si avrà modo di vedere – il divieto dei patti successori pone il problema del confine fra contratti inter vivos con effetti post mortem, del tutto leciti (in cui l’accordo prevede che la morte di uno dei contraenti figuri soltanto come termine o condizione, ovvero come evento per la piena attribuzione patrimoniale) e contratti (illeciti) in cui la morte assume rilevanza causale. È evidente che soltanto questi ultimi, cadendo nel divieto, sono da ritenere nulli; poiché non tutti i contratti i cui effetti siano in qualche modo collegati alla morte di uno dei contraenti, assumono necessariamente carattere di disposizione a causa di morte.

Fin d’ora si può osservare che non si qualifica mortis causa ogni atto (trasferimento di diritto) che acquista (piena) efficacia con la morte del disponente, ma solo quell'atto col quale una persona dispone dei suoi diritti patrimoniali non attualmente, ma per il tempo in cui, avendo cessato di vivere, non potrà più conservarne la titolarità (atto di disposizione mortis causa); mentre se l'atto si perfeziona e diviene vincolante indipendentemente dalla morte, vien meno qualsiasi legame fra morte e atto di disposizione e si dà sempre luogo a un negozio inter vivos, nonostante il differimento della sua efficacia al momento della morte di una delle parti.

Strano destino quello dei “patti successori”, richiamati nel codice come qualcosa di soltanto vietato. Gli accordi sono l’esaltazione dell’autonomia privata ma se trovano fondamento causale nella morte del contraente diventano improvvisamente vietati. Perché questo avviene?

Il legislatore ha assegnato alle regole successorie e ai suoi confini normativi evidentemente il compito di perimetrare la libertà dei privati per il periodo successivo alla loro morte. Prima di tale momento, quindi – è questa l’impostazione tradizionale - nessuna pattuizione può forzare le regole successorie. E questo è molto chiaro nel divieto dei patti istitutivi.

Le ragioni sottese alla nullità dei patti successori dispositivi e rinunciativi, sono, invece, da un lato la volontà di impedire atti di prodigalità o atti abdicativi di rilevanza economica troppo avventati e senza la possibilità di un'adeguata e concreta valutazione della loro effettiva portata e dall'altro la volontà di vietare patti che si rilevino offensivi del sentimento comune in quanto aventi ad oggetto beni appartenenti a terzi ancora in vita e quindi lesisi dei diritti che ciascun essere vivente deve vedersi riconosciuto (Trib. Potenza, 23 febbraio 2012). Sempre a proposito dei patti dispositivi e rinunciativi il divieto di cui all’art. 458 c.c. colpisce tutte le convenzioni intese a costituire, modificare, estinguere o trasmettere diritti relativi ad una successione futura. Il carattere che li distingue è quello di avere per oggetto l'eredità di una persona vivente; il loro divieto si fonda sulla lesione, che ne discende, della libertà del testatore e della revocabilità delle disposizioni testamentarie che deve permanere fino all'ultimo momento della vita del testatore.

Quando si è fuori dallo schema tipico del patto successorio, il divieto posto dal citato art. 458 c.c. non opera, costituendo esso un'eccezione alla regola dell'autonomia negoziale, che non può essere estesa a rapporti che non integrano la fattispecie tipizzata in tutti i suoi elementi (Cass. civ. Sez. I, 12 febbraio 2010, n. 3345; Cass. 18 dicembre 1995, n. 12906, a proposito entrambe di clausole statuarie societarie di cui si parlerà più oltre).

Parallelamente, però, queste regole sono state percepite negli ultimi decenni sempre più come regole strette e inadeguate. E soprattutto ai livelli medio-alti della ricchezza, si è avvertita sempre più pressantemente l’esigenza di strumenti giuridici diversi dal testamento e dalle norme della successione legittima e necessaria, che consentano di regolare anticipatamente e in modo definitivo la propria successione. Ciò ha determinato proposte di abolizione del divieto della negozialità mortis causa, ma soprattutto il ricorso a strumenti nuovi di cui sono per esempio espressione il largo uso del trust, la possibilità di trascrizione di vincoli di destinazione destinati a rimanere in vita anche dopo la morte del soggetto che li dispone e la legge 14 febbraio 2006, n. 55 che ha inserito nel codice la possibilità dei patti di famiglia (articoli 768-bis – octies), veri e propri contratti di trasferimento aziendale tra un imprenditore e i suoi discendenti. E non è finito dal momento che i patti di famiglia sono destinati ad allargarsi presto anche oltre i trasferimenti di azienda e che le attuali proposte di legge sui contratti prematrimoniali (Camera, atto n. 2669 del 15 ottobre 2014) prevedono che con tali accordi “in deroga al divieto dei patti successori e alle norme in materia di riserva del coniuge legittimario, possono essere previste anche norme per la successione di uno o di entrambi i coniugi, fatti salvi i diritti degli altri legittimari”.

L’autonomia privata ha ricercato per lo più nel contratto con effetti dopo la morte di uno dei contraenti un’alternativa al testamento. E la dottrina si è interrogata sugli istituti alternativi al testamento e sul possibile declino del divieto dei patti successori dettato dalla necessità di offrire un’adeguata risposta da parte dell’ordinamento alla richiesta di strumenti più flessibili del testamento. E’ il fenomeno ancora non del tutto approfondito del cosiddetto diritto parasuccessorio.

Anche la giurisprudenza – di fronte alla richiesta di un largo uso nei rapporti tra privati dello strumento contrattuale in funzione in senso lato successoria – si è trovata più volte a dover fare i conti con la problematica della latitudine del divieto contenuto nell’art. 458 c.c. indicando orientamenti e interpretazioni della norma codicistica.

In Cass. civ. Sez. II, 8 ottobre 2008, n. 24813 – alla quale si accennerà più oltre – si legge che “è innegabile, negli ultimi anni, una progressiva erosione, sul piano dottrinale e normativo, della portata del divieto dei patti successori. Si tratta di una tendenza che si è evidenziata in modo particolare - salvi i diritti dei legittimari - con il recepimento nella normativa nazionale dell'istituto di common law del trust, e di altri schemi contrattuali - massimamente con la disciplina delle gestioni fiduciarie da parte delle S.I.M. ed altri congegni con riguardo alla trasmissione di quote di partecipazione sociale - finalizzati al rinvenimento di strumenti negoziali idonei a soddisfare le esigenze economiche dei processi produttivi, sottraendo all'applicazione delle regole tradizionali della disciplina successoria la scelta dei successori ritenuti idonei a garantire la funzionalità dell'impresa (si pensi, in particolare, all'art. 768 bis c.c. e ss., introdotti dalla L. 14 febbraio 2006, n. 55, recante "Modifiche al codice civile in materia di patto di famiglia").

Si può dire, quindi, che il divieto dei patti successori ha subìto una erosione storica non solo ad opera del legislatore ma anche della stessa giurisprudenza chiamata oggi ad operare all’interno di questa problematica molte distinzioni.

Gianfranco Dosi
Lessico di diritto di famiglia