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I “maltrattamenti” sono un reato contro la famiglia o contro la persona?
La collocazione nel codice penale dell’art. 572 (originariamente rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli” ed oggi “Maltrattamenti contro familiari o conviventi”) all’interno del titolo XI (“dei delitti contro la famiglia”) del secondo libro e specificamente nel capo IV (“dei delitti contro l’assistenza familiare”) sembra lasciare poco spazio interpretativo al dubbio se il reato in questione, nelle intenzioni dei compilatori del codice, avesse come bene tutelato la famiglia o la persona. La collocazione nell’ambito dei delitti contro la famiglia sembra, tuttavia, dissonante rispetto a quello che appare il bene tutelato dal momento che il reato si consuma indubbiamente attraverso il compimenti di atti che ledono l’integrità fisica e morale della persona.
Come mai allora il delitto di maltrattamenti non è collocato nell’ambito dei delitti contro la persona e cioè nel XII titolo del secondo libro?
Se i codici italiani preunitari conoscevano solo il reato di maltrattamenti tra coniugi (e quindi con l’evidente obiettivo della tutela esclusiva delle relazioni coniugali), il codice penale Zanardelli del 1889 collocava più ragionevolmente il delitto di maltrattamenti tra i reati contro la persona (art. 391) in quanto riteneva prevalente evidentemente la lesione dell’integrità psicofisica della vittima. Tra autore e vittima, però, nella formulazione della norma, era sempre presupposto un legame e una relazione familiare (ed infatti la disposizione puniva i maltrattamenti “verso persone della famiglia”). In altri termini nemmeno il codice Zanardelli prevedeva un reato generale di maltrattamenti, al pari per esempio delle lesioni, e il maltrattare era questione che riguardava le sole relazioni familiari.
Il Codice Rocco riproponeva la collocazione del reato (art. 572) nell’ambito dei reati contro la famiglia - in significativa simmetria con quello di “abuso dei mezzi di correzione o di disciplina” (art. 571) - allargando tuttavia la cerchia dei soggetti passivi, ma al tempo stesso confermando che il reato si consuma attraverso il maltrattare e cioè, nell’interpretazione corrente, attraverso il compimento di atti lesivi dell’integrità fisica o morale della persona. È giusto allora chiedersi quale sia il bene tutelato.
Fino all’ottobre 2012 il testo dell’art. 572 (allora rubricato “Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) era il seguente: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni."
La legge 1 ottobre 2012, n. 172 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione di Lanzarote del 25 ottobre 2007 per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale) modificava il primo comma dell’art. 572 che veniva così riscritto: “Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da due a sei anni” e inseriva un secondo comma del tenore seguente: “La pena è aumentata se il fatto è commesso in danno di minore degli anni quattordici”.
La novità stava nella più ampia tutela offerta ai minori degli anni quattordici, nell’inasprimento della sanzione e – cosa certamente non di poco conto - nell’introduzione delle persone comunque “conviventi” tra i soggetti passivi del reato. Ed infatti anche la rubrica originaria della disposizione (”Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli”) veniva modificata in “Maltrattamenti contro familiari e conviventi”.
Il decreto legge 14 agosto 2013, n. 93 (contenente norme per il contrasto della violenza di genere) convertito dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, inseriva all’art. 61 del codice penale (“circostanze aggravanti”) un numero 11-quinquies il cui testo prevede come aggravante comune “l'avere, nei delitti non colposi contro la vita e l'incolumità individuale, contro la libertà personale nonché nel delitto di cui all'articolo 572, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza” e abrogava conseguentemente il secondo comma dell’art. 572 (dove si aggravava la pena nel caso di persona offesa minore di anni quattordici) reso inutile dall’aggravamento generale previsto in caso di reati contro minori di diciotto anni.
L’art. 9 della legge 19 luglio 2019, n. 69 contenente misure di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (in GU del 25 luglio 2019 ed entrata in vigore il 9 agosto 2019) ha rivisto ancora il testo dell’art. 572 c.p. che, dopo quest’ultima modifica è il seguente:
art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari e conviventi)
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell'articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato.
Di particolare interesse l’ultimo comma aggiunto dalla riforma del 2019 che qualifica persona offesa dal reato il minore che assiste ai maltrattamenti (cosiddetta violenza assistita). Maltrattare una persona in presenza di un minore è perciò una forma aggravata del delitto (secondo comma) mentre il minore è considerato anche lui persona offesa (terzo comma).
Riprendiamo ora il discorso sul bene tutelato dalla norma.
Nonostante la collocazione sistematica che è rimasta quella originaria (nell’ambito, cioè, dei delitti contro la famiglia, specificamente contro l’assistenza familiare) e nonostante la modifica della rubrica (“maltrattamenti contro familiari e conviventi”), che coglie soltanto uno degli svariati contenuti dell’intera fattispecie, non vi è dubbio che lo spettro dei comportamenti eterogenei penalmente sanzionati ricadenti nell’ambito dell’art. 572, colloca decisamente il baricentro della disposizione in un’area di tutela molto più estesa (ed addirittura diversa) di quella delle relazioni familiari (estendendo la tutela ai contesti comunitari di tipo educativo, lavorativo, scolastico, sanitario) potendosi fondatamente ritenere che il reato di “maltrattamenti” abbia (e abbia sempre avuto, a dispetto della rubrica) come bene tutelato primariamente l’incolumità e l’integrità psico-fisica della persona.
Con la precisazione importante, però, che il delitto di maltrattamenti non è un delitto a contenuto generale, ma ha come sfondo necessariamente una relazione, un contesto relazionale, un legame tra l’autore e la sua vittima. L’autore del reato – nonostante l’espressione “chiunque…” utilizzata in apertura della disposizione - è necessariamente legato alla vittima da una particolare specifica relazione. Sta qui la caratteristica peculiare dei “maltrattamenti”. Ed è sull’affidamento reciproco che nasce da questa relazione che la legge fonda la sanzione di quei comportamenti vessatori che questa relazione strumentalizzano con la violenza e la sopraffazione. E’ proprio l’esistenza di questa relazione che ha portato Cass. pen. Sez. VI, 24 novembre 2011, n. 24575 a precisare che il reato di maltrattamenti in famiglia sarebbe un reato proprio, potendo essere commesso soltanto da chi ricopra un "ruolo" nel contesto della famiglia (coniuge, genitore, figlio) o una posizione di "autorità" o peculiare "affidamento" nelle aggregazioni comunitarie assimilate alla famiglia dall'art. 572 del codice penale (contesti cosiddetti parafamiliari).
Piuttosto esplicita nell’additare come bene tutelato la persona all’interno della la relazione che la unisce ad un’altra è Cass. pen. Sez. VI, 31 gennaio 2003, n. 7781 secondo cui l'interesse protetto dal reato di cui all'art. 572 c.p. è la personalità del singolo in relazione al rapporto che lo unisce al soggetto attivo. E ugualmente Cass. pen. Sez. VI, 21 gennaio 2015, n. 12065 secondo cui la condotta penalmente rilevante di maltrattamenti in famiglia è riscontrabile soltanto laddove l'abitualità delle vessazioni riveli la strumentalizzazione di una relazione ai fini di una prevaricazione sistematica che induce, nella vittima, una perdurante afflizione.
Si può concludere quindi sul punto ritenendo che il delitto di “maltrattamenti” in famiglia non ha assolutamente come bene tutelato la famiglia, ma l’integrità fisica e morale della persona in tutte le sue relazioni vitali più significative (familiare, educativa, scolastica, lavorativa, sanitaria). L’oggetto della tutela è la persona nell’ambito delle sue relazioni in quelle che l’art. 2 della Costituzione chiama “le formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. In questa prospettiva le relazioni familiari sono certamente le più importanti, ma non sono le uniche.
L’aumento della pena base (da tre a sette anni, rispetto a quella originaria da uno a cinque anni) operato con la legge 19 luglio 2019, n. 69 ha rafforzato la potenzialità dissuasiva della disposizione penale, ma deve anche accompagnarsi ad una forte riqualificazione del reato sul versante del bene tutelato che non può che essere quello della incolumità e della dignità della persona. Non è tanto la relazione in sé ad essere tutelata ma la persona che in quella relazione ripone fiducia.
Di questo auspicio si era fatta in qualche modo interprete Cass. pen. Sez. VI, 23 settembre 2011, n. 36503 affermando che “l'oggetto della tutela penale nel reato di maltrattamenti in famiglia di cui all'art. 572 c.p. non è rappresentato soltanto dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla tutela dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma”.
Concetti che, in precedenza, aveva bene espresso anche Cass. pen. Sez. VI, 27 maggio 2003, n. 37019 per la quale nel reato di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p. l'oggetto giuridico non è costituito solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari[1].
[1] In questa voce, considerata la mole enorme di decisioni giudiziarie, viene indicata soltanto la giurisprudenza di legittimità. Le decisioni di merito sono comunque tutte riportate nell’appendice contenente la rassegna di giurisprudenza.