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LESSICO DI DIRITTO DI FAMIGLIA®
INTERVENTO VOLONTARIO

I

Quali sono le caratteristiche generali dell’istituto processuale dell’intervento volontario nel processo?

L’istituto processuale dell’intervento volontario nel processo è disciplinato dall’art. 105 del codice di procedura civile il quale, nei due commi che lo compongono, prevede che “chiunque può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, in confronto di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo” (primo comma: cosiddetto intervento autonomo) e che “può altresì intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti, quando vi ha un proprio interesse” (secondo comma: cosiddetto intervento adesivo).

Pertanto l’intervento autonomo (principale, cioè nei confronti di entrambe e parti, o nei confronti di una sola delle parti in causa) è previsto a tutela di un vero e proprio diritto, non quindi di una posizione giuridica soggettiva di mero fatto o legata ad un’aspettativa meramente ipotetica (Cass. civ. Sez. Unite, 5 febbraio 2013, n. 2593; Cass. civ. 7 aprile 1983, n. 2453), mentre l’intervento adesivo è previsto anche solo a tutela di un interesse, non generico o di mero fatto, ma giuridicamente qualificato (Cass. civ. Sez. I, 10 gennaio 2014, n. 364; Cass. civ. Sez. I, 19 settembre 2013, n. 21472; Cass. civ. Sez. I, 30 gennaio 1995, n. 1106; Cass. civ. Sez. I, 20 maggio 1993, n. 5736; Cass. civ. Sez. I, 2 agosto 1990, n. 7769).

Con l’intervento autonomo, quindi, il terzo fa valere ai sensi del primo comma dell’art. 105 c.p.c. il proprio diritto in un processo pendente tra altre parti - in conflitto con entrambe (ipotesi nella quale si configura quello che viene chiamato intervento principale) o solo con alcune di esse (ipotesi di intervento litisconsortile chiamato anche, con una espressione che può creare confusione, adesivo autonomo).

Il diritto che, ai sensi dell’art. 105, comma primo, cod. proc. civ., il terzo può far valere in un giudizio pendente tra altre parti, deve essere relativo all’oggetto sostanziale dell’originaria controversia, da individuarsi con riferimento al “petitum” ed alla “causa petendi”, ovvero dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo a fondamento della domanda giudiziale originaria (Cass. civ. Sez. Unite, 5 maggio 2009, n. 10274) con la precisazione molto importante, tuttavia, che, ai fini dell’intervento autonomo non è necessaria l’identità o la comunanza di causa petendi tra l’azione esercitata dall’interveniente e quella originariamente proposta dall’attore, sicché la diversità dei rapporti dedotti in giudizio non costituisce elemento decisivo al fine di escludere l’ammissibilità dell’intervento.

Questi principi sono stati ben sviluppati in Cass. civ. Sez. II, 28 dicembre 2009, n. 27398 in cui si è affermato che la facoltà d’intervento in giudizio, per far valere nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse un proprio diritto relativo all’oggetto o dipendente dal titolo dedotto in causa (e quindi anche per proporre domande contro l’attore, sempre che rientrino nella competenza del giudice adito e presentino un collegamento implicante l’opportunità di un simultaneo processo), deve essere riconosciuta indipendentemente dall’esistenza o meno, nel soggetto che ha instaurato il giudizio medesimo, della legitimatio ad causam che attiene, invece, alle condizioni dell’azione proposta nel merito e Cass. civ. Sez. III, 27 giugno 2007, n. 14844 secondo cui ai fini dell’intervento principale o dell’intervento litisconsortile nel processo la diversa natura delle azioni esercitate, rispettivamente, dall’attore in via principale e dal convenuto in via riconvenzionale rispetto a quella esercitata dall’interveniente, o la diversità dei rapporti giuridici con le une e con l’altra dedotti in giudizio, non costituiscono elementi decisivi per escludere l’ammissibilità’ dell’intervento, essendo sufficiente a farlo ritenere ammissibile la circostanza che la domanda dell’interveniente presenti una connessione od un collegamento con quella di altre parti relative allo stesso oggetto sostanziale, tali da giustificare un simultaneo processo.

Per esempio se una persona che ritiene di ver usucapito un bene interviene in una causa di rivendica tra altre due parti, la causa petendi di entrambe le cause è la stessa. Se, viceversa, interviene in una causa di petizione ereditaria promossa da un legittimario nei confronti dell’avente causa dal de cuius evidentemente la causa petendi tra le due cause è diversa. E’, invece, presupposto imprescindibile dell’intervento autonomo la circostanza che l’interveniente in via autonoma vanti, con riferimento al bene oggetto dell’altrui contesa, un diritto la cui tutela sia incompatibile con quella del diritto vantato dall’una o dall’altra delle parti originarie (Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 1992, n. 9683). Costituisce, per esempio, una ipotesi tipica di intervento autonomo e non adesivo quella in base alla quale in tema di dichiarazione giudiziale della paternità o maternità naturale alla domanda, secondo quanto stabilisce l’art. 276, secondo comma, c.c., può contraddire “chiunque vi abbia interesse” (Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 2007, n. 8355). In entrambi i casi di intervento autonomo il soggetto che interviene – al fine di prevenire le conseguenze pregiudizievoli o svantaggiose che potrebbero scaturire per lui - diventa parte del giudizio (Cass. civ. Sez. III, 17 luglio 2003, n. 11202; Cass. civ. Sez. III, 16 gennaio 1990, n. 161). Con l’intervento si realizza perciò l’ingresso di un terzo in una causa originariamente instaurata da altri e si attua un litisconsorzio facoltativo successivo attraverso il quale il terzo acquisisce la qualità di parte estendendosi a lui quindi il giudicato (o comunque la decisione).

Come è stato ben sottolineato in dottrina l’intervento autonomo è un mezzo di tutela facoltativo in quanto il terzo che non lo effettui rimarrà da un lato estraneo agli effetti della sentenza pronunciata inter alios e, dall’altro lato, potrà sempre fare valere la propria pretesa in un separato giudizio oppure con l’opposizione di terzo ordinaria.

Bisogna fare attenzione ad una circostanza importante. Come si è sopra detto la diversità dei rapporti dedotti in giudizio non esclude in sé l’ammissibilità dell’intervento del terzo (Cass. civ. Sez. Unite, 5 maggio 2009, n. 10274), perciò il terzo che interviene in una causa tra altre persone diventa parte in quella causa pur non essendo necessariamente parte nel rapporto cui quella causa si riferisce. Potrebbe esserlo ma non necessariamente lo è. Nell’esempio che si è fatto del terzo che, ritenendosi proprietario di un bene, interviene in una causa ereditaria nel quale si discute se il trasferimento di quel bene abbia o meno leso la quota di riserva di un legittimario, il terzo in questione non è certo parte del rapporto ereditario. Diventa ciononostante, in seguito all’intervento, parte della causa ereditaria. Quindi per esempio come si dirà - l’intervento del figlio maggiorenne che interviene nel giudizio di separazione tra i suoi genitori non comporta una deroga alla regola secondo cui parti del giudizio di separazione sono solo i coniugi. Ciononostante egli diventa parte nella causa di separazione in cui interviene.

Si può dire, quindi, che la conseguenza di questa pacifica ricostruzione dell’intervento autonomo - che può aiutare a risolvere i casi dubbi - è che il terzo può intervenire nel processo non necessariamente nei casi in cui egli stesso potrebbe anche essere citato nello stesso processo, ma purché abbia un diritto autonomo che potrebbe essere pregiudicato dalla decisione e che il terzo potrebbe comunque anche far valere in altro procedimento. Si tratta in definitiva dei casi di litisconsorzio facoltativo cui fa riferimento l’art. 103 c.p.c. che si verifica per esempio quando “tra le cause che si propongono esiste connessione per l’oggetto o per il titolo dal quale dipendono, oppure quando la decisione dipende, totalmente o parzialmente dalla risoluzione di identiche questioni”. In queste ipotesi (che realizzano un cumulo soggettivo) lo stesso giudice potrebbe disporre la separazione delle cause (art. 103 , secondo comma, c.p.c.).

Diverso è l’intervento adesivo dipendente. Qui il terzo può essere titolare anche solo di un interesse che giustifichi l’adesione alle ragioni di una delle parti in causa. Deve trattarsi non di un interesse generico o di mero fatto, bensì giuridicamente qualificato, determinato dalla necessità di impedire la ripercussione, nella propria sfera giuridica, delle eventuali conseguenze dannose derivanti da effetti riflessi o indiretti del giudicato. Il terzo non aziona un proprio diritto, ma si limita a chiedere l’accoglimento della domanda già avanzata da taluna delle parti originarie.

Anche l’intervento adesivo attribuisce la qualità di parte del giudizio (Cass. civ. Sez. III, 17 luglio 2003, n. 11202; Cass. civ. Sez. III, 16 gennaio 1990, n. 161).

Per questo la giurisprudenza ha osservato (nella sentenza Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2009, n. 22081 con cui è stata esclusa la legittimazione dei nonni all’intervento nel processo di separazione) che la legittimazione all’intervento ad adiuvandum presuppone la titolarità nel terzo di una situazione giuridica in relazione di connessione - da individuarsi in termini di pregiudizialità dipendenza - con il rapporto dedotto in giudizio, tale da esporlo agli effetti riflessi del giudicato. Poiché i nonni non possono essere pregiudicati dal giudicato di separazione essi non sarebbero ammessi all’intervento. Si vedrà in prosieguo se questa argomentazione può essere o meno considerata ancora plausibile.

Secondo quanto dispone l’art. 267 c.p.c. per intervenire nel processo il terzo deve costituirsi presentando in udienza o depositando in cancelleria una comparsa formata a norma dell’art. 167 (comparsa di risposta) con le copie per le altre parti, i documenti e la procura e se la costituzione non avviene in udienza il cancelliere ne dà notizia alle parti costituite (Cass. civ. Sez. I, 3 aprile 1995, n. 3905).

L’intervento – avverte il successivo art. 268 c.p.c. – può aver luogo sino a che non vengano precisate le conclusioni ed il terzo non può comunque compiere atti che – in virtù delle preclusioni processuali - al momento dell’intervento non sono più consentiti alle parti in causa. Il meccanismo appare visibilmente viziato di incostituzionalità per violazione del diritto di difesa, quanto meno nei casi di intervento autonomo in cui il terzo resta di fatto vincolato dalle conclusioni delle parti ove dovesse costituirsi oltre i termini di preclusione previsti dal codice. Una questione in tal senso è stata dichiarata, però, inammissibile dalla Corte costituzionale (Corte cost. 1 agosto 2008, n. 331) ma la giurisprudenza - che in un primo momento era apparsa favorevole all’applicazione letterale applicando all’interventore il regime delle preclusioni (Cass. civ. Sez. I, 31 gennaio 2007, n. 2093) – successivamente, superando il dato letterale della norma, ha ritenuto che “chi interviene volontariamente in un processo già pendente ha sempre la facoltà di formulare domande nei confronti delle altre parti, quand’anche sia ormai spirato il termine di cui all’art. 183 c.p.c. (Cass. civ. Sez. III, 16 ottobre 2008, n. 25264).

Quello di cui si sta parlando è l’intervento volontario, spontaneo, che si differenzia da quello provocato ad istanza di parte (art. 106 c.p.c.) o per ordine del giudice (art. 107 c.p.c.) nei casi in cui appare opportuno che il processo si svolga in confronto di un terzo al quale la causa è comune.

L’intervento autonomo (art. 105, primo comma, c.p.c.) legittima naturalmente anche l’autonoma impugnazione, a differenza dell’intervento adesivo (art. 105, secondo comma, c.p.c.) che esclude tale legittimazione (Cass. civ. Sez. lavoro, 1 giugno 2004, n. 10530) ma consente solo di intervenire nell’eventuale giudizio di appello. La giurisprudenza è, infatti, consolidata nel ritenere che “la parte che spiega intervento adesivo dipendente nel corso del procedimento non può dedurre eccezioni non sollevate dal convenuto e può aderire all’impugnazione eventualmente proposta dalla parte da lei adiuvata, ma non anche impugnare autonomamente la sentenza” a meno che non si tratti di pronuncia sulle spese (Cass. civ. Sez. Unite, 17 aprile 2012, n. 5992; Cass. civ. Sez. Unite, 9 novembre 2011, n. 23299; Cass. civ. Sez. Unite, 30 marzo 2010, n. 7602; Cass. civ. Sez. II, 16 febbraio 2009, n. 3734; Cass. civ. Sez. III, 16 novembre 2006, n. 24370; Cass. civ. Sez. I, 13 settembre 2003, n. 2128; Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 1998, n. 10237; Cass. civ. Sez. II, 20 ottobre 1997, n. 10252). La questione di illegittimità costituzionale di questa interpretazione restrittiva è stata ritenuta in passato non fondata (Corte cost. 30 dicembre 1997, n. 455).

Nel giudizio di appello – come dispone l’art. 344 c.p.c. – l’intervento volontario è ammesso soltanto per i terzi che potrebbero proporre opposizione di terzo ai sensi dell’art. 404 (Cass. civ. Sez. III, 23 maggio 2006, n. 12114).Quest’ultima norma prevede che il terzo può fare opposizione contro una sentenza passata in giudicato quando pregiudica i suoi diritti (ovvero, per gli aventi causa e i creditori di una delle parti, quando è l’effetto del dolo o collusione a loro danno) e quindi l’intervento volontario possibile in appello è solo l’intervento autonomo (a tutela di un diritto) e non quello adesivo (a tutela di un interesse).

Nel giudizio davanti alla Corte di cassazione è inammissibile l’intervento dei terzi che non abbiano partecipato ai pregressi gradi di giudizio (Cass. civ. Sez. Unite, 29 aprile 2005, n. 8882; Cass. civ. Sez. II, 26 maggio 1999, n. 5126; Cass. civ. Sez. I, 1 settembre 1995, n. 9227) così come anche nel giudizio di rinvio (Cass. civ. Sez. III, 3 aprile 1995, n. 3912).

L’intervento nel processo di esecuzione ha finalità diverse da quelle previste per il processo di cognizione perché tende ad affermare la parità di condizione tra i creditori e quindi non può essere omologato all’intervento di cui finora si parlato. In ogni caso in sede esecutiva – come prevede l’art. 498 c.p.c. – i creditori (che se hanno un diritto di prelazione devono essere obbligatoriamente avvertiti dal debitore pignorante: art. 498) possono intervenire se hanno un credito fondato sul titolo esecutivo (o negli altri casi previsti dalla disposizione in questione il più importante dei quali è il caso del creditore che aveva eseguito un sequestro sui beni pignorati) depositando a tal fine in cancelleria un ricorso prima che sia tenuta l’udienza per la vendita o l’assegnazione. Può naturalmente intervenire anche lo stesso creditore procedente se ha altri crediti fondati sul medesimo titolo esecutivo per il quale ha iniziato egli stesso l’esecuzione e maturati successivamente, come avviene, per esempio, per i crediti alimentari o di mantenimento di natura periodica. L’intervento così effettuato - come prescrive l’art. 500 - dà diritto a partecipare ovviamente alla distribuzione delle somme ricavate o all’espropriazione di beni pignorati. A seconda del tipo di procedura espropriativa altre norme specificano le modalità e gli adempimenti dell’intervento. Come si è detto, però, questi tipi di intervento nel processo esecutivo, non possono essere considerati omologhi all’intervento autonomo o adesivo cui ci si riferisce in questo studio.

Nella giurisprudenza di merito si è ritenuto ammissibile l’intervento del terzo nel procedimento cautelare (Trib. Lecco, 13 dicembre 2001; Trib. Ravenna, 9 giugno 1997; Trib. Salerno, 14 maggio 1997)

Gianfranco Dosi
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