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L’imputabilità nel sistema penale e in quello civile
L’imputabilità è una delle categorie giuridiche principali del diritto penale. Esprime il principio generale secondo cui “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità d'intendere e di volere” (art. 85 codice penale).
Dunque imputabilità e capacità di intendere e di volere sottintendono lo stesso concetto.
Si tratta di una norma di garanzia. L’imputabilità è il principale presupposto della punibilità.
In tutti i manuali di diritto penale si affronta il tema delrapporto tra imputabilità e colpevolezza; se cioè l'imputabilità sia un presupposto della colpevolezza o se questa sia configurabile anche con riferimento ai soggetti incapaci di intendere e di volere. Secondo alcuni l'imputabilità non costituisce il presupposto della colpevolezzae le condizioni psicologiche del dolo e della colpa sarebbero individuabili anche con riferimento al soggetto non imputabile. In senso contrario si afferma, che non può parlarsi di colpevolezza ovenon vi sia una concreta possibilità di agire diversamentee ciò esclude la possibilità di individuare la colpevolezza in capo all'incapace di intendere e di volere. Secondo questa diversa impostazione teorica l'imputabilità sarebbe, dunque, presupposto della colpevolezza. Senza entrare, per il momento, nel merito delle due tesi si deve convenire, comunque, sul fatto che l’imputabilità è certamente un presupposto della punibilità, come afferma l’art. 85 del codice penale.
Se l’incapacità di intendere e di volere è procurata e preordinata “al fine di commettere un reato” la punibilità non è, però, esclusa (art. 87 c.p.).
Non si tratta, naturalmente, di una categoria che appartiene solo al diritto penale. Anche l’illecito civile si fonda sull’imputabilità. L’art. 2046 del codice civile chiarisce, infatti, che “Non risponde delle conseguenze del fatto dannoso chi non aveva la capacità di intendere e di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato di incapacità derivi da sua colpa”.
Tuttavia, nonostante l’apparente simmetria tra sistema civile e sistema penale, le differenze di disciplina relativamente alla capacità di intendere e di volere sono profonde.
In ambito penale, infatti, l’imputabilità è presunta per i soggetti maggiori di età (per i quali può naturalmente venir meno per un “vizio di mente”) ma è esclusa del tutto per i minori di età inferiore ai 14 anni (art. 97 c.p.) e deve essere, invece, obbligatoriamente accertata in concreto per i minori che hanno superato i 14 anni (art. 98 c.p.).
In ambito civile, viceversa, non esistono presunzioni di incapacità come in ambito penale. Ed inoltre il codice civile, in caso di danni cagionati da minori di età, si presenta in dissonanza rispetto al principio penalistico della responsabilità personale del solo autore del fatto. Infatti il risarcimento per fatti commessi da soggetti incapaci di intendere e di volere non è dovuto dall’incapace (che non può nemmeno essere convenuto in un giudizio di danno) ma da chi è tenuto alla sua sorveglianza (culpa in vigilando) (art. 2047 c.c.), mentre del danno cagionato dai soggetti che sebbene minori di età sono però capaci di intendere e di volere, rispondono iure proprio – cioè in modo diretto (Cass. civ. Sez. III, 19 ottobre 2007, n. 21972; Cass. civ. Sez. III, 16 giugno 2005, n. 12965) e non indiretto - i genitori o chi esercita le funzioni di rappresentanza legale, come il tutore o l’affidatario (culpa in educando) (art. 2048 c.c.). Il sorvegliante e il rappresentate legale possono, però – secondo quanto prevedono le norme sopra citate - sempre provare di non aver potuto impedire il fatto.
La simmetria con il sistema penale è anche fortemente incrinata dai criteri di valutazione dell’imputabilità. Il giudice civile non è condizionato dai limiti di età indicati dalle norme penali. In sede civile un minore di età inferiore ai quattordici anni può essere ritenuto del tutto capace di intendere e di volere, con la conseguenza che in tal caso troverà applicazione l’art. 2048 anziché l’art. 2047. Infatti il principio assolutamente consolidato in giurisprudenza è che in campo civile, ai fini dell'imputabilità del fatto dannoso opera un sistema diverso ed autonomo rispetto a quello previsto per l'imputabilità in campo penale e nel quale è la legge stessa che fissa i confini e le cause che la escludono. Secondo il disposto dell'art. 2046 c.c. è riservato al giudice civile il compito di accertare, di volta in volta, in relazione a specifici parametri, quali l'età, lo sviluppo psicofisico, le modalità del fatto o altre circostanze, se debba escludersi o meno la capacità di intendere o di volere del soggetto minore di età (Cass. civ. Sez. III, 19 novembre 1990, n. 11163; Cass. civ. Sez. III, 21 febbraio 1980, n. 1259; Cass. civ. Sez. III, 18 giugno 1975, n. 2425; Cass. civ. Sez. III, 8 aprile 1965, n. 597; Trib. Aosta, 22 gennaio 2013; Trib. Cagliari, 21 giugno 2001).