I
Il tema del diritto alla morte
Come si è osservato in altra sede[1] il giurista deve interrogarsi – nella prospettiva dei diritti dell’uomo – sui limiti della concezione sociologica tradizionale del suicidio come atto deviante ed esplorare il tema della morte volontaria, pur legata evidentemente a condizioni di sofferenza, non solo come manifestazione di una libertà alterata (diffusa soprattutto tra criminologi, medici e psichiatri) ma nel suo presentarsi come morte anticipata scelta dall’individuo. Il suicidio come espressione estrema di questa libertà (il diritto alla morte) va annoverato tra i nuovi ed ineludibili temi del sapere giuridico: il consenso informato, il diritto all’interruzione dei trattamenti terapeutici, il testamento biologico, l’eutanasia (buona morte).
Il tema del diritto alla morte è stato esplorato - e di fatto risolto in senso affermativo - tra l’altro nella vicenda molto nota che riguardava la giovane Eluana Englaro che nel gennaio 1992, alle porte di Lecco, appena ventunenne, a causa del fondo stradale ghiacciato perse il controllo dell’auto che guidava, andando a schiantarsi contro un muro e riportando un gravissimo trauma cranico-encefalico con paresi di tutti e quattro gli arti. Restò in coma per molti mesi. La giovane uscì poi dal coma, ma a causa delle lesioni cerebrali irreversibili, fu dichiarata in stato vegetativo. I genitori chiesero ai medici la sospensione dell’alimentazione artificiale effettuata con sondino naso gastrico, portando anche a supporto della richiesta testimonianze di amiche della figlia secondo le quali Eluana - rimasta in passato profondamente scossa dopo aver fatto visita in ospedale ad un amico in coma a seguito di un sinistro stradale – aveva dichiarato, anche ai genitori e pubblicamente a scuola, di ritenere preferibile la situazione di un altro ragazzo, che, nel corso dello stesso incidente, era morto sul colpo, piuttosto che rimanere immobile in ospedale in balia di altri attaccato ad un tubo.
Di fronte al rifiuto dei medici il padre della giovane - nominato tutore della figlia nel frattempo interdetta - intraprese la strada giudiziaria per chiedere l’autorizzazione all’interruzione dell’alimentazione forzata. Risolti problemi procedurali che allungarono per alcuni anni i tempi della vicenda giudiziaria, il tribunale di Lecco nel febbraio 2006 dichiarò inammissibile la richiesta, sostenendo che né il tutore né il curatore speciale nominato che aveva aderito alla richiesta, avevano un potere di rappresentanza nella sfera di diritti personalissimi. Peraltro, anche ove si fosse ritenuto che il curatore o il tutore avessero avuto tale potere, la domanda - ad avviso del tribunale - avrebbe dovuto essere rigettata per contrasto con i principi espressi dall'ordinamento costituzionale. Secondo il tribunale, infatti, ai sensi degli artt. 2 e 32 della Costituzione un trattamento terapeutico o di alimentazione, anche invasivo, indispensabile a tenere in vita una persona non capace di prestarvi consenso, non solo sarebbe lecito, ma addirittura dovuto, in quanto espressione del dovere di solidarietà posto a carico dei consociati, tanto più pregnante quando il soggetto interessato non sia in grado di manifestare la sua volontà. Avverso tale decreto il tutore proponeva reclamo alla Corte d'appello di Milano che nel dicembre 2006, in riforma del provvedimento impugnato, dichiarava ammissibile il ricorso (in quanto “nel potere di cura della persona, conferito al rappresentante legale dell'incapace, non può non ritenersi compreso il diritto-dovere di esprimere il consenso informato alle terapie mediche”) ma lo rigettava nel merito (in quanto “la vita è un bene supremo, non essendo configurabile l'esistenza di un diritto a morire”).
La Corte di Cassazione, alla quale il tutore e il curatore speciale si rivolsero, accoglieva, invece, il punto di vista dei ricorrenti (Cass. civ. Sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748 prima ed unica pronuncia della giurisprudenza di legittimità favorevole al diritto di interrompere la propria vita) premettendo che “il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l'intervento del medico è sicuramente illecito, anche quando è nell'interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell'individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi”. La Corte approfondiva quindi accuratamente i fondamenti del consenso informato e affermava che il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale e che “deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”.
Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c'è spazio - nel quadro dell'"alleanza terapeutica" che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell'ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c'è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c'è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”.
Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche – concludevano i giudici - anche quando conduce alla morte, non può essere scambiato per un'ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, esprimendo piuttosto tale rifiuto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. E d'altra parte occorre ribadire che la responsabilità del medico per omessa cura sussiste in quanto esista per il medesimo l'obbligo giuridico di praticare o continuare la terapia e cessa quando tale obbligo viene meno: e l'obbligo, fondandosi sul consenso del malato, cessa - insorgendo il dovere giuridico del medico di rispettare la volontà del paziente contraria alle cure - quando il consenso viene meno in seguito al rifiuto delle terapie da parte di costui.
Il decreto della Corte d’appello di Milano che aveva negato l’autorizzazione veniva annullato e la causa veniva rimessa per la decisione ad un’altra sezione della stessa Corte d'appello di Milano che con decreto in data 9 luglio 2008 autorizzava il padre della giovane in qualità di tutore ad interrompere il trattamento di idratazione e di alimentazione forzata. Il 6 febbraio del 2009 – dopo 17 anni di stato vegetativo - fu avviata la progressiva riduzione dell’alimentazione a seguito della quale il 9 febbraio successivo sopravveniva la morte di Eluana Englaro[2].
Ben diverso dalla storia di Eluana Englaro era stata la vicenda di Piergiorgio Welby la cui richiesta di morire senza inutili sofferenze venne rigettata nel 2007 dal tribunale di Roma.
A differenza di Eluana Englaro – da anni in stato vegetativo irreversibile – Piergiorgio Welby non era nelle stesse condizioni, sebbene avesse perso le capacita autonome di alimentazione, di respirazione e della parola. Anche per questo forse la soluzione giudiziaria fu diversa.
La malattia di Welby durava dal 1963, anno in cui, diciottenne, gli venne diagnosticata una distrofia muscolare scapolo omerale progressiva, dall’esito certamente infausto. Contrariamente alle previsioni dei medici, il decorso della malattia, seppure inesorabilmente tendente all’aggravarsi, si era dimostrato, da principio, piuttosto lento e graduale. Ciononostante, nel corso degli anni ottanta, Welby aveva perso l’uso delle gambe, per poi assistere, nel corso degli anni novanta, al progressivo deterioramento del proprio stato fisico. Nel luglio del 1997 Welby perdeva i sensi, a causa dell’insufficienza respiratoria e da quale momento vivrà tracheotomizzato; perdeva la capacità di alimentarsi, di respirare e, sostanzialmente, di parlare in maniera comprensibile: dunque verrà nutrito con un prodotto speciale, respirerà con l’ausilio di un apparato di ventilazione polmonare. Nel 2006 si rivolgeva al tribunale di Roma chiedendo l’autorizzazione all’interruzione della ventilazione artificiale e alla sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale. Il tribunale rigettava la richiesta sia in fase cautelare (Trib. Roma, 16 dicembre 2006) che di merito (Trib. Roma 23 luglio 2007) in quanto è inammissibile la richiesta di provvedimento avanzata da persona affetta da un gravissimo ed irreversibile stato morboso degenerativo, volta a conseguire la cessazione del suo sostentamento mediante ventilazione artificiale, nonché la contestuale sottoposizione ad una terapia di sedazione terminale, atteso che – pur se è configurabile il diritto del paziente alla consapevole ed informata autodeterminazione nella scelta delle terapie cui sottoporsi – tale diritto non è in concreto tutelabile, a causa della mancata definizione, in sede normativa, delle sue modalità attuative, in particolare con riferimento all’esatta individuazione del c.d. divieto di accanimento terapeutico.
Piergiorgio Welby si rivolgeva allora ad un medico che si dichiarava disponibile e con l’aiuto del quale si spegneva la sera del 20 dicembre 2006. Veniva ipotizzato, a carico del sanitario, il reato di omicidio del consenziente (art. 579 cod. pen.). Il PM formulava richiesta di archiviazione. Il GIP respingeva la richiesta di archiviazione e imponeva al PM di formulare l’imputazione. Il giudice dell’udienza preliminare dichiarava, ex art. 425 c.p.p. non luogo a procedere nei confronti del medico in quanto non punibile per la sussistenza, rispetto al suo operato, dell’adempimento di un dovere (G.U.P. Trib. Roma, 23 luglio 2007).
[1] Cfr la voce SUICIDIO
[2] Di questa vicenda e di altre si para nella voce C0NSENSO INFORMATO