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Che si intende con l’espressione comunione de residuo? – (Aggiornamento Cass. civ., Sez. Unite, 17 maggio 2022, n. 15889; Cass. civ. Sez. II, 19 ottobre 2021, n. 28872 e Cass. civ. Sez. I, ord., 19 febbraio 2021 n. 4492)
Il regime patrimoniale della comunione legale dei beni comporta l’acquisizione indivisa nel patrimonio di entrambi i coniugi di tutti gli acquisti effettuati congiuntamente o separatamente durante il matrimonio (“comunione immediata”: art. 177, lett. a, c.c.), salvo che il titolo di acquisto sia la donazione o la successione o che l’acquisto faccia riferimento a beni “strettamente personali” di un coniuge o che servono alla sua professione ovvero che sia effettuato con il ricavato della vendita di beni personali (art. 179). Tutti gli acquisti durante il matrimonio, quindi – con le eccezioni indicate – formano un patrimonio coniugale comune indiviso fino allo scioglimento del regime (per le cause indicate nell’art. 191 la più consueta delle quali è costituita dall’autorizzazione a vivere separati contenuta nell’ordinanza resa all’udienza presidenziale di separazione). A partire da tale momento la comunione legale si trasforma in comunione ordinaria e i coniugi possono procedere alla divisione rigorosamente in parti uguali (art. 194) fatti salvi i rimborsi e le restituzioni (art. 192).
La comunione immediata degli acquisti non è, però, l’unica ricchezza che i coniugi in comunione dividono al momento dello scioglimento del regime. In tale momento, infatti, si produce un’ulteriore acquisizione di ricchezza da parte dei coniugi, consistente nell’attribuzione a ciascuno di essi, sempre per quote uguali, dei risparmi (individuali) esistenti in quel momento. I proventi che i coniugi hanno separatamente acquisito, con il loro lavoro (subordinato o autonomo) e versato in conti individuali non è entrato nella comunione immediata (in quanto non si tratta di acquisti ma, appunto, di retribuzioni, stipendi o parcelle professionali); tali proventi entrano in comunione soltanto al momento in cui cessa il regime. La disciplina di tali risparmi, fino allo scioglimento della comunione, è quella dei rapporti tra correntisti e banca depositaria: ciascuno dei coniugi può, quindi, liberamente disporre del denaro esistente nel proprio conto individuale. Ciò, però, che al momento dello scioglimento della comunione non è stato consumato e che è rimasto nei conti correnti, viene acquisito al patrimonio comune e, come per gli acquisti di cui si è sopra detto, viene diviso a metà. Ugualmente avviene per altri beni che nel codice civile, come si dirà, sono specificamente indicati come facenti parte di quella che è comunemente chiamata comunione de residuo, cioè, appunto, comunione di ciò che rimane (perché non consumato). Poiché l’acquisizione di tali beni al patrimonio di ciascun coniuge si verifica solo al momento della cessazione del regime legale si parla anche di “comunione differita”. Un conguaglio finale, insomma, tra gli incrementi dei patrimoni di ciascun coniuge anche se la giurisprudenza, come di vedrà, preferisce parlare di contitolarità di diritti (più, quindi, che di un credito reciproco) al momento della cessazione del regime.
Per i conti correnti cointestati non si pone un problema di comunione de residuo essendo le regole de conto cointestato sufficienti a garantire la suddivisione del risparmio comune.
Nella comunione de residuo confluiscono quattro specifiche categorie di beni:
1) In primis per importanza “I proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi se, allo scioglimento della comunione, non siano stati consumati” (art. 177 lett. c);
2) In secondo luogo “I frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati, allo scioglimento della comunione” (art. 177, lett. b);
3) “I beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio…” se sussistono al momento dello scioglimento della comunione (art. 178, prima parte)
4) “… gli incrementi dell’impresa [di uno dei coniugi] costituita anche precedentemente” sempre se sussistono al momento dello scioglimento della comunione (art. 178, ultima parte).
Con una recentissima sentenza, la Cassazione a Sezioni Unite ha dichiarato che, nel caso di impresa riconducibile ad uno solo dei coniugi costituita dopo il matrimonio e ricadente nella cd. comunione de residuo, al momento dello scioglimento della comunione legale, all’altro coniuge spetta un diritto di credito pari al 50% del valore dell’azienda, quale complesso organizzato, determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale, ed al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data (Cass. civ., Sez. Unite, 17 maggio 2022, n. 15889): nella sentenza in questione, che verrà ampiamente analizzata al paragrafo IV della presente voce, la Cassazione afferma quindi la natura obbligatoria della comunione de residuo, con ciò risolvendo l’annoso dibattito in proposito.
Infine si segnala che, con una recente sentenza, la Cassazione ha affermato che la preclusione per il coniuge beneficiario di assegno divorzile in unica soluzione, di cui all’art. 5, comma 8, l. n. 898 del 1970, di future pretese di carattere economico, non riguarda anche l’azione di accertamento della comunione “de residuo” proposta dall’ex coniuge ai sensi degli artt. 177, lett. b) e c), e 178 c.c., trattandosi di pretesa fondata su presupposti e finalità del tutto diversi, atteso che la detta comunione si costituisce solo su taluni beni dei coniugi e soltanto se ancora esistenti al momento del suo scioglimento (Cass. civ. Sez. I, ord., 19 febbraio 2021 n. 4492).