I
Il regime legale dell’affidamento dei figli in sede di separazione dei genitori
Il codice civile come riformato nel 1975 prevedeva all’art, 155 (Provvedimenti riguardo ai figli) che “Il giudice che pronunzia la separazione dichiara a quale dei coniugi i figli sono affidati e adotta ogni altro provvedimento relativo alla prole, con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa. In particolare il giudice stabilisce la misura e il modo con cui l’altro coniuge deve contribuire al mantenimento, all’istruzione e all’educazione dei figli, nonché le modalità di esercizio dei suoi diritti nei rapporti con essi. Il coniuge cui sono affidati i figli, salva diversa disposizione del giudice, ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi; egli deve attenersi alle condizioni determinate dal giudice. Salvo che sia diversamente stabilito, le decisioni di maggiore interesse per i figli sono adottate da entrambi i coniugi. Il coniuge cui i figli non siano affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse.
Per oltre trent’anni queste regole (basate sostanzialmente sull’affidamento monogenitoriale) hanno costituito la base normativa di riferimento della dottrina e della giurisprudenza nell’elaborazione del pensiero giuridico in materia di affidamento dei figli minori in sede di separazione e divorzio.
La norma costruiva l’affidamento come un diritto che potremmo chiamare di custodia del figlio e il genitore affidatario esercitava in via esclusiva sostanzialmente tutti i poteri genitoriali, avendo solo l’obbligo giuridico di concordare con l’altro genitore (salvo diversa indicazione del giudice) le “decisioni di maggiore interesse per i figli”. Il genitore non affidatario aveva doveri di contribuzione e diritti di visita oltre che un potere di vigilanza che lo autorizzava a richiedere l’intervento del giudice a fronte di comportamenti del genitore affidatario ritenuti pregiudizievoli al figlio.
Una prima significativa incrinatura di questo sistema normativo si determinò nel 1987 in seguito all’introduzione – effettuata nella legge sul divorzio dalla legge 6 marzo 1987, n. 74 – dell’affidamento congiunto (joint custody) non meglio precisato nel suo significato innovativo. Si legge nel secondo comma dell’art. 6 della legge 898/70 semplicemente che “Ove il tribunale lo ritenga utile all’interesse dei minori, anche in relazione all’età degli stessi, può essere disposto l’affidamento congiunto o alternato”.
Mentre l’interpretazione dell’espressione affidamento alternato non ha mai dato adito a dubbi sul suo significato (pur essendo state sollevate su questa modalità di affidamento molte perplessità), la giurisprudenza sull’affidamento congiunto è stata unanime nel sottolinearne gli aspetti promozionali della bigenitorialità. La previsione dell’affidamento congiunto e alternato in sede di divorzio fu presto estesa dalla giurisprudenza – come era logico che avvenisse - anche alla separazione (Cass. sez. I, 13 dicembre 1995, n, 12775, Cass. sez. I, 4 maggio 1991, n. 4936).
La possibilità di affidare congiuntamente i figli ai genitori si presentava come un cambiamento reale e non soltanto simbolico. Tuttavia, benché la dottrina e una parte della giurisprudenza si sforzassero di interpretare questa modifica in chiave di bigenitorialità l’applicazione della riforma fu molto deludente. Segnale eloquente di come il concetto fosse, tutto sommato, largamente problematico. Come si fa, infatti, ad esercitare congiuntamente le responsabilità verso i figli quando ci si separa?
Fu solo la riforma del 2006 sull’affidamento condiviso che determinò una decisa inversione di rotta e una vera e propria operazione culturale di risistemazione dei concetti di fondo in materia di affidamento dei figli.
L’impianto della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) – pur in qualche parte contrassegnato dall’approssimazione linguistica del legislatore – è piuttosto chiaro nella previsione dell’obiettivo della tutela della bigenitorialità. La legge introduceva l’affidamento ad entrambi i genitori e la “potestà” esercitata da entrambi i genitori come modalità prioritarie attraverso le quali realizzare le corresponsabilità educative attribuendo, però, al giudice il potere di imprimere motivatamente correzioni al regime di affidamento quando queste modalità si dovessero presentare contrarie all’interesse del minore. Si trattava per la cultura giuridica di una riforma di grandissimo rilievo; un nuovo paradigma educativo (la bigenitorialità) che il legislatore indicava ai genitori come modello comportamentale da attuare in caso di separazione o divorzio.
La riforma ribaltava il precedente regime introducendo l’affidamento condiviso come regola ordinaria in caso di separazione dei coniugi e di divorzio così recependo, anche se con grande ritardo, i principi già enunciati dalla Convenzione di New York del 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con la L. 27 maggio 1991, n. 176 nel cui Preambolo, si legge: “Il fanciullo, ai fini dello sviluppo armonioso e completo della sua personalità, deve crescere in un ambiente familiare in un clima di felicità, di amore e di comprensione” oltre che nell’art. 9, comma 3: “Il minore ha diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i suoi genitori, a meno che ciò non sia contrario all’interesse preminente del fanciullo”) e dalla Convenzione europea di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa esecutiva con L. 20 marzo 2003, n. 77 recante una concezione del minore come soggetto non più incapace di provvedere a se stesso e necessariamente oggetto di decisioni altrui, ma, piuttosto, come persona titolare di una serie di diritti e protagonista delle sue scelte esistenziali.
Il principio esplicitato in apertura della riforma (che riformulava l’art. 155 del codice civile aggiungendovi gli articoli 155-bis, 155-ter, 155-quater, 155-quinquies, 155-sexies) è che “il figlio minore ha il diritto di mantenere un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori, di ricevere cura, educazione, istruzione e assistenza morale da entrambi e di conservare rapporti significativi con gli ascendenti e con i parenti di ciascun ramo genitoriale” (art. 155, comma 1, c.c.). Per realizzare questa finalità – continua la legge - il giudice “adotta i provvedimenti relativi alla prole con esclusivo riferimento all’interesse morale e materiale di essa” e “valuta prioritariamente la possibilità che i figli minori restino affidati ad entrambi i genitori oppure stabilisce a quali di essi i figli sono affidati” (art. 155, comma 2, c.c.).
Spetta al giudice, quindi, innanzitutto il compito di valutare se i genitori appaiono capaci di continuare ad occuparsi entrambi dei loro figli. L’affidamento dei figli ad uno solo dei genitori potrà essere disposto con provvedimento motivato nei casi in cui “l’affidamento all’altro sia contrario all’interesse del minore” (nuovo art. 155-bis).
I principi in questione hanno carattere generale e trovano applicazione non solo in sede di separazione, divorzio o nullità del matrimonio ma anche nella regolamentazione dell’affidamento dei figli nati al di fuori del matrimonio. In tutti i casi, insomma, in cui i genitori interrompono la loro vita in comune.
La locuzione usata dalla legge di riforma (affidamento ad entrambi i genitori) è senz’altro diversa, oltre che più appropriata, rispetto a quella di affidamento congiunto, sebbene ne richiami simbolicamente tutte le caratteristiche – così come l’esercizio ad entrambi della “potestà” non significa esercizio congiunto della “potestà” - altrimenti il legislatore avrebbe ripetuto entrambe queste espressioni. Perciò l’espressione affidamento congiunto – introdotta, come si è detto, nel 1987 nella legge sul divorzio ed estesa alla separazione anche dalla giurisprudenza - scompariva dal lessico giuridico.
L’espressione affidamento ad entrambi i genitori è del tutto sovrapponibile a quella di affidamento condiviso che compare nella intitolazione della legge e nella rubrica del nuovo art. 155-bis, oltre che nelle proposte di legge originarie. La sostanziale identità di significato non è mai stata messa in discussione.
Nella prassi viene utilizzata negli accordi tra coniugi e nei provvedimenti giudiziari l’espressione affidamento ad entrambi i genitori che appare sintatticamente più adeguata (I coniugi concordano che il figlio minore resti affidato ad entrambi i genitori.... Il tribunale dispone che il figlio resti affidato ad entrambi i genitori...).
La locuzione affidamento ad entrambi i genitori, significa, quindi, che il giudice non esprime preferenze per l’uno o per l’altro genitore ma attribuisce ad entrambi i genitori la piena responsabilità di continuare ad occuparsi dei figli, sia pure dopo la separazione.
Si tratta di una valutazione che la legge vuole molto rigorosa nel senso che il provvedimento di affidamento ad un solo genitore si presenta come modalità alternativa, subordinata, qualora il giudice ritenga, con provvedimento motivato, che l’affidamento ad entrambi sia contrario all’interesse del minore (così testualmente si esprime il nuovo primo comma dell’art. 155-bis c.c.). In tal caso il legislatore mette a disposizione del giudice l’alternativa dell’affidamento ad uno soltanto di essi, cioè del tradizionale affidamento monogenitoriale. Questa alternativa costituisce, perciò, una sorta di valvola di sicurezza del nuovo sistema. Si tratta, quindi, di un rovesciamento del sistema precedente che era fondato sulla previsione in via prioritaria dell’affidamento monogenitoriale ed in via subordinata dell’affidamento ad entrambi.
Nell’impianto delle norme introdotte nel 2006 l’espressione affidamento ha in primo luogo un valore soprattutto metagiuridico, quasi simbolico, a differenza di quanto avveniva con il vecchio testo del terzo comma dell’art. 155 c.c. (“Il coniuge cui vengono affidati i figli... ha l’esercizio esclusivo della potestà su di essi...”) che esprimeva una equivalenza giuridica tra affidamento ed esercizio della “potestà” nel senso che il genitore affidatario esercitava in via esclusiva la “potestà”.
Da un punto di vista semantico la radice dell’affidamento è la fiducia. Affidare vuol dire avere fiducia in qualcuno. Affidare il figlio ad entrambi significa avere fiducia in entrambi. Avere fiducia nella possibilità che i genitori separati riescano a condividere quanto necessario per la crescita il più possibile serena dei figli.
Che il termine affidamento abbia nella riforma un significato soprattutto metagiuridico, simbolico, lo si capisce se si considera che se anche il termine affidamento sparisse non cambierebbe nulla, dal momento che il perno della legge sta nel concetto “potestà”/responsabilità. La riforma, insomma, avrebbe potuto espungere del tutto l’espressione “affidamento” potendo benissimo limitarsi a disporre quando la “potestà”/responsabilità è esercitata da entrambi e quando è esercitata solo da uno dei due genitori.
A dare una sistemazione al tema dell’affidamento dei figli concentrandola proprio sulla responsabilità genitoriale è intervenuta la riforma sulla filiazione (legge 10 dicembre 2012, n. 219 e D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154) il cui obiettivo di fondo è stata la completa parificazione dello status dei figli a prescindere dalla nascita all’interno o fuori dal matrimonio. La riforma ha rimodellato significativamente l’intero titolo IX del primo libro del codice civile (“della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”) che ora si occupa al capo I “dei diritti e i doveri dei figli” e al capo II “dell’esercizio della responsabilità genitoriale a seguito di separazione, divorzio, annullamento del matrimonio o all’esito di procedimenti relativi ai figli nati fuori del matrimonio”. In questo secondo capo gli articoli dal 337-bis al 337-octies, ripropongono, razionalizzandone la stesura, la disciplina legale dell’affidamento definita alla legge 54/2006 (con l’importante novità della previsione legale dell’esercizio della responsabilità genitoriale sui figli nati fuori dal matrimonio anche in caso di non convivenza dei genitori).