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I presupposti e le conseguenze dell’addebito nella separazione - (Aggiornamento: Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2021, n. 20866, Cass. civ. Sez. VI - 1, 15 ottobre 2020, n. 22266, Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2020, n. 18508, Cass. Civ., Sez. I, 28 giugno 2019, n. 17590, Corte d'Appello Roma, 26 luglio 2018, Cass. civ. Sez. lavoro, 2 febbraio 2018, n. 2606)
Secondo il testo vigente del secondo comma dell’art. 156 c.c. il tribunale, su domanda di parte, con la sentenza che definisce il giudizio di separazione può dichiarare “a quale dei coniugi è addebitabile la separazione in considerazione del suo comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio”.
Questo meccanismo viene considerato l’unico elemento di una qualche continuità rispetto alla separazione come era concepita prima della riforma del 1975 del diritto di famiglia, allorché il codice prevedeva cause tassative di separazione consistenti in comportamenti colpevoli di uno dei coniugi (adulterio della moglie o del marito se costituiva causa di ingiuria grave alla moglie, abbandono volontario, eccessi, sevizie, minacce e ingiurie gravi). Anche allora il coniuge incolpevole conservava i diritti inerenti la qualità di coniuge e quello colpevole non aveva diritto se non agli alimenti. La riforma del 1975 cancellò questo sistema basato sulla colpa e determinò il passaggio ad una concezione della separazione intesa come rimedio ad una situazione di intollerabilità della convivenza. Si può chiedere la separazione anche se non sussistono quelle ipotesi tassativamente previste prima della riforma del 1975. L’attuale primo comma dell’art. 151 c.c. scolpisce questa nuova concezione ammettendo ciascuno dei coniugi a chiedere la separazione non necessariamente per cause determinate ma “quando si verificano, anche indipendentemente dalla volontà, fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione della prole”.
Nonostante questa concezione della separazione come diritto di ciascuno dei coniugi, il legislatore ha ritenuto di conservare anche l’istituto dell’addebito nell’intendimento di evitare che attraverso la separazione – e il conseguente eventuale diritto all’assegno - uno dei coniugi possa addirittura lucrare in relazione a propri comportamenti lesivi della solidarietà coniugale. Il regime primario matrimoniale caratterizzato da doveri di solidarietà e di reciproca assistenza anche materiale impone al sistema di garantire che il coniuge senza adeguati redditi conservi anche dopo la separazione il diritto all’assistenza materiale da parte dell’altro coniuge. Pertanto sarebbe ingiusto che questa conseguenza venisse garantita anche nei confronti di chi si rende responsabile (“colpevole”) della fine della vita matrimoniale. Proprio questo ha finora impedito di eliminare dal diritto matrimoniale l’istituto dell’addebito.
Come si vedrà la soluzione di questo problema difficilmente potrebbe venire dall’utilizzazione dello strumento della responsabilità civile, dal momento che questo strumento mentre da un lato potrebbe garantire una prospettiva risarcitoria per il coniuge incolpevole, dall’altro è ancorato a presupposti che in molte situazioni – si pensi al caso della violazione dell’obbligo di collaborazione e di assistenza morale – non necessariamente potrebbero integrare i presupposti dell’illecito risarcibile ai sensi della clausola generale di cui all’art. 2043 del codice civile, attesi i caratteri di “mobilità, reciprocità, indeterminatezza dei doveri coniugali” che, secondo l’impostazione tradizionale di questo problema ancora oggi ampiamente discussa in dottrina, non costituirebbero doveri e diritti soggettivi in senso tradizionale.
La violazione delle obbligazioni coniugali sintetizzate nell’art. 143 c.c. (“Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco alla fedeltà, all’assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell’interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia”) e dell’art. 144 c.c. (“I coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare…”) non necessariamente pertanto costituiscono illecito civile ma certamente possono trovare nell’ambito del diritto di famiglia la loro sanzione, appunto in primo luogo nell’addebito della separazione.
La giurisprudenza considera pacificamente presupposti dell’addebito la violazione colpevole da parte di uno o di entrambi i coniugi dei doveri coniugali e il nesso causale tra queste condotte e l’evento dell’intollerabilità della convivenza che segna il momento della crisi della vita coniugale. Si legge in molte decisioni su questo punto che la pronuncia di addebito non può fondarsi sulla sola violazione dei doveri che l'articolo 143 del c.c. pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale (da ultimo Cass. civ. Sez. I, 21 luglio 2021, n. 20866, Cass. civ. Sez. VI - 1, 15 ottobre 2020, n. 22266, Cass. civ. Sez. VI – 1, 4 settembre 2020, n. 18508, Cass. civ., Sez. I, 28 giugno 2019, n. 17590, Corte d'Appello Roma, 26 luglio 2018, Cass. civ. Sez. I, 20 agosto 2014, n. 18074; Cass. civ. Sez. I, 11 dicembre 2013, n. 27730; Cass. civ. Sez. I, 18 novembre 2013, n. 25843; Cass. civ. Sez. I, 12 gennaio 2000, n. 279).
L’addebito della separazione ha certamente una valenza per così dire “etica” nella visione che i coniugi hanno del matrimonio: stabilire a chi dei due sia addebitabile la separazione può diventare un’esigenza personale da non sottovalutare.
Tuttavia nel nostro ordinamento le conseguenze giuridiche non sono particolarmente significative e sono tutte di segno “negativo”, nel senso che determinano la perdita di qualcosa. L’addebito non comporta invece particolari diritti a carico del coniuge incolpevole; in questo senso non ha conseguenze “positive”. Le conseguenze sono, infatti, il venir meno del diritto all’assegno coniugale salvo il diritto agli alimenti (art. 156 c.c.) e il venir meno dei diritti successori, fatto salvo un assegno vitalizio se il coniuge colpevole godeva degli alimenti (art. 548 e 585 c.c.) e, naturalmente, anche la privazione della eventuale pensione di reversibilità, salvo che non sussista il diritto agli alimenti. In merito si segnala Cass. civ. Sez. lavoro, 2 febbraio 2018, n. 2606 che (richiamando la sentenza della Corte cost. n. 286 del 1987) stabilisce per il coniuge separato con addebito la possibilità di richiedere la pensione di reversibilità: “il coniuge superstite al quale sia stata addebitata la separazione, come già il coniuge separato per colpa nella previgente disciplina della separazione coniugale, ha diritto alla pensione di reversibilità, indipendentemente dalla circostanza che versi o meno in stato di bisogno e senza che rilevi l'attribuzione di un assegno di mantenimento o altra provvidenza di tipo alimentare”.
Si tratta di conseguenze certamente importanti una volta, ma oggi di non eccessivo rilievo considerato che il divorzio da un lato potrebbe far riemergere il diritto all’assegno (non essendo previsto l’istituto dell’addebito in sede divorzile) e dall’altro determina ipso iure la perdita dei diritti successori.
Forse proprio per questa scarsa rilevanza delle conseguenze pratiche la prassi giudiziaria ha reso del tutto residuale il contenzioso sull’addebito in sede di separazione facendolo quasi sparire dalle aule di giustizia.